di Claudio Cippitelli
“C’è probabilmente una cosa, e una soltanto, su cui concordano tutti i capi di stato moderni; una cosa su cui concordano i cattolici, i protestanti, gli ebrei, i maomettani e gli atei; una cosa su cui concordano i democratici, i repubblicani, i socialisti, i comunisti, i liberali e i conservatori; una cosa su cui concordano le autorità mediche e scientifiche di tutto i mondo; e su cui concordano i punti di vista, espressi attraverso sondaggi di opinioni e risultati di votazione, della grande maggioranza delle persone di ogni paese civilizzato. Questa cosa è il “fatto scientifico” che certe sostanze che alla gente piace ingerire o iniettarsi sono “pericolosi” sia a coloro che ne fanno uso sia agli altri; e che l’uso di tali sostanze costituisce “abuso di droghe” o “assuefazione alla droga” (…) Tuttavia c’è scarsa concordanza – da persona a persona, da paese a paese, e addirittura da decennio a decennio – a proposito di quali sostanze siano accettabili (…) e quali invece siano inaccettabili…” (da “Il mito della droga” di Thomas S. Sasz)
Questo scriveva Thomas S. Sasz nella prima pagina del suo libro “Il mito della droga”, pubblicato a New York nel 1974, a soli tre anni dallo scoppio (unilateralmente dichiarata dagli USA) della “guerra alla droga”, guerra che dagli inizi degli anni ’70 è stata combattuta, e evidentemente persa, in tutti i continenti, con un corollario di danni diretti e collaterali enorme.
La “war on drugs” (guerra alla droga), dichiarata dal presidente Richard Nixon nel 1971, come ormai è evidente a tutti, è fallita. A certificarlo, tra gli altri e con ampia dovizia di evidenze sociali, politiche ed economiche, è l’Alternative World Drug Report, a cura della campagna internazionale Count the Cost, pubblicato in concomitanza con la pubblicazione del WDR2012 dell’Ufficio delle Nazioni Unite contro la Droga e il Crimine. Tale rapporto evidenzia il fallimento dei governi e delle Nazioni Unite e nelle conclusioni si invitano gli Stati membri delle Nazioni Unite a calcolare i costi della war on drugs e a esplorare tutte le possibili alternative. D’altronde, gli stessi dati dell’UNODOC (United Nations Office on Drugs and Crime) evidenziano tale sconfitta: a fronte di più di un trilione di dollari spesi, circa 270 milioni di persone oggi utilizzano sostanze psicotrope illegali.
A fronte di una tale débacle, molte sono le voci che chiedono una nuova regolazione delle politiche internazionali sulle droghe e le sostanze psicotrope. Sulla scorta di decise prese di posizione di diversi governi sud e centroamericani (per esempio il documento del 2009 della Commissione Latinoamericana su droghe e democrazia che chiede un “cambio di paradigma”) e delle recenti legalizzazioni della cannabis in diversi stati nordamericani (Colorado, Washington, Alaska, Oregon e distretto di Columbia), la politica internazionale della guerra alla droga vive un momento di pesante crisi che, molto probabilmente, porterà ad un ripensamento dell’approccio e all’individuazione di nuovi trattati e nuove convenzioni. Anche le recenti esecuzioni di sei narcotrafficanti volute dal governo indonesiano - che hanno innescato una decisa reazione di Olanda e Brasile, paesi da cui provenivano alcuni dei giustiziati - dimostrano come si sia profondamente incrinata l’adesione internazionale alla war on drugs, alla sua filosofia e alle sue pratiche.
Anche l’Italia, sin dai tempi del Governo Craxi e della legge Russo-Jervolino, ha aderito e partecipato con zelo alla guerra alla droga voluta da Reagan e proseguita dai Bush: una guerra che nel nostro paese, con l’avvento dei Governi Berlusconi e la Legge Fini-Giovanardi, si è declinata anche, drammaticamente, come guerra ai drogati.
La stampa italiana, consciamente o inconsciamente, ha adottato la metafora della guerra alla droga, scegliendo spesso uno stile “combat”, “embedded” e rinunciando troppo frequentemente a quel ruolo critico che dovrebbe appartenergli. Il corredo iconografico che in questi anni ha accompagnato gli articoli della carta stampata e le immagini dei servizi televisivi, sembrano rendere evidente tale scelta. Nelle pagine seguenti proveremo a declinare tale affermazione, nella speranza che la nuova consapevolezza della fine di un approccio fallimentare e criminogeno al fenomeno della diffusione planetaria delle droghe si riverberi anche nella cultura dei nostri media.