Giornalismo e violenza sulle donne

Dal “niente è femminicidio” al “tutto è femminicidio”

di Andrea Pogliano

L’individuazione del problema. Nella scheda precedente si accennava alla difficoltà di capire quale violenza esercitata da uomini su donne sia da intendere come violenza di genere, legata al potere e al possesso tipiche di una cultura patriarcale e di “dominazione maschile” e quale possa essere intesa altrimenti. Questo delicato confine che spesso viene sciolto non senza difficoltà nelle aule di tribunale, è un ovvio ostacolo di natura ermeneutica – ve ne sono parecchi altri di natura pratica – alla produzione di statistiche indiscutibili sul femminicidio. La difficoltà nell’avere dei dati precisi sul femminicidio, che potessero essere usati come prova dagli attivisti (movimenti delle donne in primis) per dimostrare l’aumento e la diffusione del fenomeno, ha fatto si che i media giocassero un ruolo cruciale in questa partita. La “Casa delle donne” di Bologna ha infatti tenuto e tiene un registro dei casi di femminicidio basato sul numero di articoli e servizi pubblicati dalla stampa. Questo registro ha fornito una base per presentare pubblicamente il tema come un’emergenza. Tuttavia, il rapporto ambiguo e tutt’altro che lineare tra fatti e notizie (per via dei noti meccanismi di “ondate” caratteristici della selettività delle informazioni da parte dei media) è stato da più parti sottolineato per smentire la validità di una tale base empirica a supporto della tesi dell’emergenza (ad esempio, si veda De Luca).

La logica emergenziale può risultare dannosa, come è apparso evidente in molti altri contesti narrativi, tra i quali quello dell’immigrazione che noi stessi abbiamo trattato, e può portare a leggi e azioni che risultano poco adatte al problema che si pretende di risolvere. Al tempo stesso però, imporre un problema come un’emergenza risulta sovente un’operazione necessaria – se la guardiamo dal punto di vista degli attivisti e dei movimenti – per spingere i governanti all’azione e la cittadinanza a prendere coscienza di una questione che potrebbe altrimenti restare nell’ombra. Il rischio connaturato alla fretta e alla distorsione che ogni emergenza creduta tale porta con sé, viene spesso ad essere anche la condizione necessaria per ottenere pubblica attenzione. Così, se il rischio più grande appare, in ultima analisi, quello connesso alla qualità dell’intervento, ossia alla corretta individuazione del problema, riesce difficile sostenere che il problema sarebbe stato oggetto delle dovute attenzioni in assenza di una tale costruzione mediatica.

Fabrizio Tonello chiude così il suo intervento su “Il Fatto Quotidiano”:

“Nel 2006-2007 sembrava che dietro ogni omicidio di una donna ci fosse un extracomunitario, nel 2013 sembra che il colpevole debba essere un marito o un ex: prima di creare task force ministeriali o addirittura nuove leggi guardiamo ai numeri veri del fenomeno”. (da Il Fatto Quotidiano del 13 maggio 2013)

Il frame della violenza sulle donne. In questo modo Tonello sostiene, come farà poco dopo il già citato De Luca, che i dati di cui si dispone sembrano indicare un’assenza di escalation, ferma restando la diffusione e capillarità della violenza domestica subita dalle donne. Ciò che Tonello sottolinea – e su questo torneremo nell’analisi che segue – è che il frame del “delitto d’onore” legato a culture “altre” aveva portato i giornalisti, nel 2006-2007 a selezionare maggiormente casi di violenze in famiglie di immigrati, così come il frame della sicurezza urbana – nella sua accezione di un problema legato prevalentemente all’immigrazione – aveva portato altresì a concentrarsi sugli stupri da parte di sconosciuti di origini immigrate su donne italiane (Cfr Lo stupro alla Caffarella nel 2009)

Il risultato di questa operazione di framing – qui inteso innanzitutto come selezione e salienza, in base alla definizione che ne diede Robert Entman, secondo il quale fare framing significa selezionare alcuni aspetti della realtà e enfatizzare all’interno dei quella selezione gli alcuni aspetetti che contribuiscono adefinire il problema in un determinato modo – portò allora a nascondere alla pubblica discussione il fatto che la violenza sulle donne fosse innanzitutto una violenza di genere, indipendentemente dalle appartenenze culturali di vittime e carnefici e che i dati statistici sugli omicidi di donne ad opera di uomini mostravano chiaramente la netta predominanza di casi in cui l’omicida era parente o fidanzato della vittima. Se questo è avvenuto nel 2006-2007, sulla scia di un discorso pubblico in cui le forze politiche di destra sono riuscite a imporre all’agenda dei media il tema della sicurezza e del “pericolo immigrazione”, pochi anni più tardi, con la spinta del frame di genere connesso alle violenze, i media hanno operato selezioni chiaramente diverse sui molti casi di cronaca disponibili. Così facendo, hanno finito per offrire ai pubblici (cioè a noi) un’immagine della realtà delle violenze sulle donne in cui stupri e violenze nelle famiglie di immigrati sono via via diventate meno visibili e in cui la tendenza a descrivere come femminicidio qualunque violenza di un uomo su una donna ha preso invece il sopravvento.

Un caso tra i tanti possibili per corroborare questo argomento ce lo offre il Tg1 delle 20 del 17 Settembre 2013, di cui riporto qui di seguito una parte sostanziosa del testo che accompagna il servizio:

Conduttrice: “Ancora femminicidi in Italia. Ha atteso la moglie per la strada e l’ha uccisa a coltellate. É successo nelle Marche. Lei 66, lui 76 anni. Erano separati. Dalla figlia, parole di comprensione per il padre. Emma D’Aquino”.

Cronista: “Mio padre era un uomo disperato, questo non è un femminicidio. Fanno impressione le prime parole pronunciate dalla figlia della donna uccisa a coltellate dall’ex marito, da cui viveva separate da anni. Parole che danno il senso di quanto fosse annunciata questa ennesima tragedia famigliare [compare la seguente scritta in sovrimpressione: “La figlia: non è femminicidio”]. 66 anni lei, 76 lui. Un matrimonio, le figlie, la separazione, le liti. Tante. Per l’impossibilità di raggiungere un accordo economico che soddisfacesse entrambi. La rabbia disperata ha armato la mano di quest’uomo, quando poco dopo le 3 del mattino, al centro di Civitanova ha aspettato lungo la strada che l’ex moglie passasse in bici. Conosceva i suoi orari di lavoro… In mezzo alla strada, con il coltello in mano, l’ha prima tramortita a pugni, poi ha infierito su di lei più volte”.

(…)

La figlia: “Mia madre era andata via di casa, ma non aveva mai smesso di assillarlo, di vessarlo con le sue richieste di denaro”.

Cronista: L’estremo tentativo di una figlia di comprendere la follia del padre. Un altro caso in cui l’impossibilità di trovare un accordo, di comunicare tra chi ha passato metà della vita insieme e che non si riconosce più, si è trasformato in violenza e morte”.

Al di là di ogni giudizio che ognuno è libero di dare sulla positività o meno di questo passaggio e sul grado assoluto o relativo di positività, è bene fissare l’attenzione sul potere che hanno i politici e i movimenti organizzati della società civile di imporre ai media un frame, che poi saranno i media a ri-immettere nell’arena pubblica, filtrato da tutte le possibili coloriture, distorsioni e ulteriori operazioni di creazione di confini simbolici che risultano tipiche della maniera di operare delle industrie delle notizie.

La confusione tra femicidio e femminicidio. Il 25 Novembre 2013, in occasione della “giornata mondiale contro la violenza sulle donne”, la cronista del Tg2 delle 18,15 dice queste parole:

“In tutto il mondo oggi è la giornata dell’indignazione e della protesta contro la strage, ormai quotidiana, di donne uccise da uomini. Dai loro uomini. 128 le vittime italiane dall’inizio dell’anno: una ogni tre giorni. I cui nomi si perdono in un dolente elenco di professioniste, casalinghe, madri e ragazzine. Delitti fotocopia, nelle motivazioni e nell’efferatezza, da Nord a Sud”.

In questo modo, oltre a confondere femicidio con femminicidio, ogni omicidio di donna per mano di un uomo viene inteso come femminicidio; le differenze di contesto, di cause e motivi spariscono (si parla di delitti fotocopia) e la forza del frame diventa la sua debolezza. Anche sui giornali vediamo all’opera lo stesso meccanismo. Il Corriere della sera di un anno prima (23 novembre 2012) propone un servizio sulle donne vittime di omicidio ma ne parla in termini di femminicidi. I “115 morti” dall’inizio dell’anno, che sono il numero delle donne uccise in Italia nel 2012, vengono presentati come “I dati del femminicidio in Italia”.

Corriere 23 novembre 2012
Corriere 23 novembre 2012

Sempre sul Corriere, 26 settembre 2013, una storia di una donna in coma, ferita da un colpo di pistola esploso da un vicino di casa che non ha nulla a vedere col femminicidio, né con la violenza domestica, viene impaginata accanto a un trafiletto sulle tempistiche per la discussione alla Camera della legge contro il femminicidio e da un altro trafiletto che riporta il caso di un marito che ha ucciso la moglie.

Corriere della Sera 26 settembre 2013
Corriere della Sera 26 settembre 2013

Ancora: su Repubblica del 26 novembre 2013, una doppia pagina interamente dedicata ai femminicidi, trova spazio il caso di una madre che ha costretto la figlia a prostituirsi.

La Repubblica 26 novembre 2013
La Repubblica 26 novembre 2013

È dunque evidente che, oltre al ruolo di supporto ai movimenti che hanno lottato per imporre un’attenzione al tema e per definirlo, fungendo involontariamente come database, i media hanno giocato e giocano un ruolo chiave nel ri-definire continuamente il frame della violenza sulle donne.

I cambiamenti dell’immaginario legato al femminicidio. La ricerca già menzionata, condotta da Fabrizio Tonello e Elisa Giomi su dati del 2006-2007 ha portato tra le altre cose a individuare due questioni critiche. Pur avendole già menzionate, le riprendo qui per maggiore chiarezza analitica. La prima riguardava l’enfasi mediatica sui casi di violenze extra-domestiche con la relativa sottorappresentazione dei ben più numerosi casi di violenze domestiche, commesse da parenti e fidanzati. La seconda riguardava la sovrarappresentazione delle violenze nelle famiglie di immigrati. Entrambi i processi tendevano a oscurare il cuore pulsante di quello che oggi chiamiamo femminicidio, spostando il fuoco sui casi eccezionali o culturalmente “estranei” e ignorando di conseguenza la natura endemica del fenomeno, ovvero l’inquietante normalità della violenza di genere. Nei nove anni che hanno fatto seguito a quel lavoro di ricerca, le cose sono molto cambiate. A fronte di una avvenuta tematizzazione, di una attenzione accresciuta alle violenze domestiche, di una proporzione finalmente invertita tra violenze in famiglie italiane e violenze in famiglie straniere, emergono tuttavia diverse ambiguità e questioni di sicuro interesse analitico che nelle prossime analisi verranno affrontate con una particolare attenzione alle immagini e alla produzione di un immaginario legato al femminicidio.

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