di Andrea Pogliano
La selezione e l’aggregazione delle notizie sul femminicidio. Analizzando i telegiornali Rai degli ultimi anni, ricercando la parola-chiave “femminicidio”, appare evidente come il processo di framing intorno al tema della violenza sulle donne abbia sicuramente sortito alcuni effetti evidenti, soprattutto in merito alla selezione delle notizie e alla loro aggregazione, ma al contempo abbia prodotto delle forzature e delle ambiguità non irrilevanti che rischiano di rendere il frame del femminicidio un frame debole e contestabile, nella misura in cui la definizione del problema viene spesso proposta dai media in termini contraddittori.
Guardiamo innanzitutto all’aspetto di riuscita del processo. Come abbiamo già intravisto grazie all’estratto del Tg1 delle 20 del 17 Settembre 2013 (cfr “un caso dei tanti possibili” nella scheda Giornalismo e Violenza sulle donne), vi è una diffusa tendenza a inserire le nuove ricorrenze lungo un continuum. Nel telegiornale citato, la conduttrice introduceva il servizio con queste parole: “Ancora femminicidi in Italia”. Frasi come queste sono diventate negli ultimi anni la norma. “Ennesimo femminicidio”; “ancora un uomo che uccide una donna”; “si tratta della vittima numero 112 dall’inizio dell’anno”; ecc. Questi esempi segnano il passaggio alla tematizzazione.
Un altro processo rilevante è quello della costruzione di pacchetti, in cui per parlare di una violenza se ne richiamano altre recenti, attingendo a materiali d’archivio, come abbiamo visto fare abbondantemente nel caso delle violenze domestiche su donne immigrate (Cfr. Scheda “Hina, Sanaa e le altre”). Questa tematizzazione del problema delle violenze sulle donne ha portato in alcuni casi a una rinnovata consapevolezza giornalistica. Un esempio indubbiamente positivo ce lo offre il Tg1 del 25 novembre 2014(1), con tre servizi prodotti in occasione della giornata mondiale contro la violenza sulle donne.
Si tratta di un buon esempio di servizi che rinunciano all’eccesso di retorica e individuano delle questioni pratiche rilevanti. Nel primo servizio si offre la cronaca sulla giornata mondiale contro la violenza sulle donne; nel secondo si affronta la questione dei fondi stanziati dal governo per i centri anti-violenza, che però in molti casi non sono ancora pervenuti. Infine, viene prodotta la testimonianza di una donna che dopo essere stata picchiata dal compagno che non accettava il fatto che lei lo volesse lasciare, e dopo essere stata un mese in coma, si è risvegliata e ha trovato la forza di denunciare, anche grazie all’assistenza e alla protezione ricevute. In pratica, prima vengono messi in imbarazzo politici nazionali e regionali per la questione dello stanziamento dei fondi per la prevenzione e poi viene offerto un servizio che ha lo scopo di fungere da esempio e da stimolo per le donne che non trovano il coraggio di denunciare le violenze dei loro compagni. Si tratta a nostro parere di un ottimo esempio di giornalismo di servizio, segno che l’adozione del frame del femminicidio ha prodotto dei buoni frutti.
Guardiamo ora agli aspetti problematici. Uno l’abbiamo già menzionato e riguarda l’incapacità di tenere separati, sotto l’ombrello del termine femminicidio, le violenze che possono essere raccontate come violenze di genere e quelle dove l’aspetto culturale, legato al potere maschile, al possesso, alla struttura patriarcale della relazione maschile-femminile, sembrano contare meno di altri motivi particolari, come ad esempio quelli di ordine economico. (cfr La confusione tra femicidio e femminicidio nella scheda Giornalismo e Violenza sulle donne).
Un secondo aspetto problematico riguarda l’uso della parola femminicidio accostato a racconti che richiamano il delitto passionale (la gelosia, il raptus, ecc.) o che descrivono il persecutore come un soggetto disturbato o affetto da problemi psichici.
Il Tg2 delle 20,30 del 19 Settembre 2013 ci offre un buon esempio di queste criticità:
Conduttore: Donne che vengono uccise. A Rimini una cameriera muore per una coltellata al cuore; a Udine, per il delitto della giovane avvocato, fermato un uomo che sembra soffrire di disturbi psichici. La cronaca: Daniela Orsello.
Cronista: “L’ho uccisa io”, ha detto ai carabinieri che lo hanno fermato, dopo una segnalazione. “Volevo rapirla e chiedere il riscatto perchè avevo bisogno di soldi”. Una confessione scioccante, fatta da un uomo di 36 anni, in stato confusionale. Si chiama Nicola Garbino. Nello zaino che aveva con sé c’erano vestiti e un coltello sporchi di sangue; sul braccio tagli e contusioni. “Mi avete beccato”, ha aggiunto. (dal tg2 delle 20.30 del 19 settembre 2013)
La vita di Silvia Gobbato, 28 anni, un futuro da brillante avvocato, sarebbe dunque finita per mano di questo disoccupato, iscritto fuori corso all’Università, che l’ha colpita con 12 coltellate, al torace e al dorso, dopo che lei aveva evidentemente cercato di difendersi. Di lui si sa solo che abitava con i genitori; che viene descritto come una persona un po’ strana e introversa, forse con disturbi psichici, ma che non era in carico ai servizi sociali della zona. Nessuno ha assistito al delitto nel boschetto dove la ragazza stava serenamente facendo jogging. Uno scenario davvero inquietante. E per un giallo che sembra chiudersi ce n’è un’altro che aspetta la soluzione.
E anche qui la vittima è una giovane donna, una cameriera romena di 33 anni, trovata questa mattina con un coltello nel cuore, in una pensione di Rivabella di Rimini. Morta sul colpo. Una bella ragazza, che proprio oggi avrebbe dovuto far ritorno nel suo paese. A scoprire il cadavere la proprietaria della struttura, chiusa per ferie. Lei e il figlio sono stati interrogati tutto il giorno, per cercare di far luce su questo ennesimo femminicidio, una tragedia che ormai si ripete quasi ogni giorno”.
L’indebolimento del discorso strutturale che sta dietro al concetto di femminicidio. Come si vede, anche in questo servizio che dà forma a un pacchetto, c’è un senso di continuità, sia in partenza (“donne che vengono uccise”), sia nel passaggio da un caso all’altro (“e anche qui la vittima è una giovane donna”), sia in coda (“su questo ennesimo femminicidio, una tragedia che ormai si ripete quasi ogni giorno”). Tuttavia, i casi hanno solo questo in comune: delle donne sono state uccise. Il termine femminicidio sembra che venga usato come sostitutivo di “donne uccise”, privandolo così di quell’accezione che vorrebbe avere nelle intenzioni di chi l’ha introdotto. Nel secondo caso non si sa neppure se l’omicida sia uomo o donna.
Sebbene non si sappia se l’omicida reo confesso della prima storia abbia o meno disturbi psichici, si spinge questa tesi a più riprese (“fermato un uomo che sembra soffrire di disturbi psichici” – dice il conduttore introducendo il caso; “viene descritto come una persona un po’ strana e introversa, forse con disturbi psichici, ma che non era in carico ai servizi sociali della zona” – dice la cronista). L’altro dato che emerge è che fosse disoccupato. Queste supposizioni e questi pochi dati che vengono forniti vanno nella direzione di un indebolimento del discorso strutturale che sta dietro al concetto di femminicidio, riportando le storie a casi individuali, di uomini problematici in senso esistenziale e psichico.
Un altro esempio viene dal Tg1 delle 20 del 26 Settembre 2013:
Conduttore: “Un braccialetto elettronico per gli stalker, è quanto prevede un emendamento del PD al decreto del governo sul femminicidio, approvato in Commissione alla Camera. Intanto, ancora una donna uccisa dal suo compagno. E’ accaduto nel piacentino. Antonio Boschi.”
Donna intervistata: “Lui era un periodo che non lavorava più, quindi era sempre in casa. Lei lo aiutava come poteva. Neanche lei prendeva tanto di stipendio”.
Cronista: L’ha afferrata per il collo, con le mani e ha stretto fino ad ucciderla. Ancora una volta una donna è vittima della violenza tra le mura domestiche. L’omicidio… sembra essere maturato in una situazione di grave disagio famigliare, causato da una difficile situazione economica di una coppia che all’apparenza sembrava non avere problemi. (dal Tg1 delle 20 del 26 Settembre 2013)
Questi casi indeboliscono il frame del femminicidio. Personalizzando e complessificando in senso psicologico i soggetti, la struttura culturale che sorregge l’asimmetria di potere socializzata attraverso l’educazione di genere perde non solo di forza esplicativa, ma talvolta persino di senso. Ovviamente non stiamo dicendo che i giornalisti dovrebbero evitare di personalizzare le figure dei persecutori, ma che il risultato di racconti siffatti sintetizzati come casi di femminicidio è quello di produrre un cortocircuito di senso che indebolisce la coerenza comunicativa del frame. Un altro elemento di debolezza è dato dall’ambiguità dei numeri. Il Tg3 Pomeriggio del 15 Ottobre 2013 lancia un servizio su un omicidio di donna con queste parole: “Dall’inizio dell’anno sono 100 le donne vittime dei propri ex”. E lo chiude con queste: “E oggi Alexandra è la 100esima vittima dei femminicidi dall’inizio dell’anno in Italia”. Altri Tg, qualche giorno prima di questo servizio presentavano un numero leggermente più alto (120) e lo declinavano con il più generico “donne uccise per mano di uomini”, parlando però di femminicidio. Tutte queste ambiguità mostrano la scarsa capacità dei media di mantenere e dare forza e dignità a una battaglia di civiltà che rischia di essere capovolta dai suoi detrattori.
1Per questioni legate alla concessione dei diritti Rai, siamo in attesa di poter pubblicare il video,ndr