di Andrea Pogliano
Violenze domestiche tra immigrati e tra autoctoni: due frame ancora distinti. Il servizio del tg1 delle 20 del 7 ottobre 2013 (menzionato nel paragrafo “La desiderabilità come valore-notizia” nella scheda precedente) risulta utile anche per aprire un confronto tra i racconti di violenze sulle donne in famiglie immigrate e quelle di violenze sulle donne in famiglie autoctone. In questo tg, infatti, si nota come il giornalismo crei un pacchetto che mette in relazione diversi casi di violenza e crea una connessione diretta tra le vittime, proprio come è accaduto per le vittime immigrate dopo il caso Hina Saleem , ma si tratta qui di un uso una tantum, che non dà luogo a un’abitudine giornalistica trasversale.
Le ragazze scelte per il pacchetto hanno in comune di essere belle e giovani. E’ una scelta che fa parte di un preciso sguardo “sessuato” sul fenomeno. Si utilizzano immagini private, ma nei portafoto, esposti direttamente nelle case delle vittime o di parenti delle vittime. C’è qui un consenso dei famigliari che invece non è presente nel caso dell’utilizzo delle fotografie da Facebook prese per raccontare le ragazze di origini immigrate vittime di violenza. Inoltre, come conseguenza probabilmente involontaria, le immagini nei portafoto nelle case delle madri parlano di famiglia mentre le immagini da Facebook parlano di individui isolati connessi principalmente a gruppi di pari. Il risultato è funzionale nel primo caso - ossia quello che riguarda le vittime autoctone – a segnalare un legame comunitario in cui il persecutore e lui soltanto, viene isolato e accusato (anche se raramente si insiste su questo aspetto e quasi mai si crea un mostro); nel secondo caso l’utilizzo di immagini da Facebook è invece funzionale a segnalare un isolamento dalla comunità e una connessione con un mondo “extra-famigliare” se non addirittura “etnicamente distinto”.
Non si sa se ci sia una selezione nelle fotografie trovate in casa, ma nel complesso esse parlano di bellezza. Sono inoltre tutte immagini vagamente erotiche. Degli uomini non vengono mostrate immagini. Manca quindi la controparte brutale, manca poi chiaramente la costruzione in immagini di una “comunità” avversa, cosa che invece era comune nell’uso delle immagini di cronaca e di stock che accompagnavano i servizi delle vittime immigrate. Le altre immagini “di sfondo” utilizzate per i servizi su vittime autoctone mostrano solo luoghi, oggetti e la presenza delle forze dell’ordine, oppure mostrano donne di spalle o fuori fuoco che camminano per strada. Sono immagini di donne belle e giovani, in gonna, con vestiti attillati o scollature, segnalate da opportuni movimenti di macchina che portano lo spettatore dai volti ai corpi, al seno, ai fianchi, alle gambe.
Due “pacchetti mediali” che non si contaminano. Si potrebbe azzardare un paragone tra quelle immagini di donne velate che accompagnavano i servizi sulle violenze subite da ragazze immigrate e queste immagini di donne scollate. In entrambi i casi i media sembrano selezionare degli estremi per creare un racconto fatto in un caso di grandi contrasti e nell’altro di una continuità che diventa ambigua illustrazione di sfondi e motivazioni possibili. La nota principale però è che i due pacchetti sono e restano due cose completamente diverse, che sembrano non avere quasi nessuna contaminazione.
Abbiamo trovato solo tre servizi in cui compare un caso di immigrati nel pacchetto femminicidio.
Uno è quello del Tg1 delle 20 del 25 novembre 2010. La presenza di una vittima immigrata nel pacchetto è però dettata dal caso: l’omicidio capita in coincidenza della giornata mondiale contro la violenza sulle donne. Oltre a quello c’è il già citato servizio del Tg2 delle 20,30 del 19 Settembre 2013. Lì la donna romena uccisa è descritta come una donna bella e vivace, che di lavoro faceva la cameriera e che stava per tornare al suo paese. Insomma, la vittima, pur essendo immigrata viene integrata nel pacchetto “italiano” perché, potremmo azzardare, appartiene a quella figura di “immigrato italianizzato” tipico del racconto mediale (Confronta la scheda: La storia di Rachid).
Infine c’è il servizio del Tg1 delle 20 del 26 Ottobre 2013.
Qui si trattano tre casi di femminicidio avvenuti nello stesso giorno. Uno di un anziano sulla moglie, entrambi italiani; uno di un ecuadoregno sulla compagna (si erano conosciuti da poco in chat e lui era venuto a vivere in Liguria dagli States); uno di un italiano su una badante romena di cui era amante. Vengono trattati allo stesso modo: immagini di cronaca, foto delle donne e non degli uomini.
C’è però una nota curiosa. Viene inserita un’intervista a un ragazzo che abitava accanto agli ecuadoregni. Il ragazzo dice: “Gente brava, gente che non sono mai stati…non hanno mai creato dei problemi…Non ho mai visto giri strani”. È un piccolo gioiello di “effetto framing”. Siccome sono immigrati, per dire che sembravano due persone normali, da cui non ci si attendeva un fatto violento, come spesso viene detto dai vicini in molti casi analoghi che coinvolgono degli italiani, si parla qui di “creare dei problemi” e di “giri strani”, aderendo con naturalezza al frame della sicurezza.
Se queste sono le eccezioni, la regola è però un’altra: quando le vittime sono immigrate, il frame culturale “di genere” si piega al frame etno-culturale, che spiega la violenza attraverso l’appartenenza a culture. I pacchetti che si creano riguardano di conseguenza solo immigrati, mentre i pacchetti che si creano seguendo il frame di genere, sorretto dalla parola-chiave “femminicidio” tendono a aggregare casi in cui non compaiono immigrati. A tale riguardo è utile notare che anche i gruppi di pressione che hanno spinto per portare all’attenzione dei media uno e l’altro frame sono generalmente distinti. Pur avendo in comune il discorso di genere, è l’orientamento politico a creare un solco. Ad esempio,figure come Suad Sbai e Daniela Santanché, così presenti nel condannare le violenze sulle donne interne alle famiglie immigrate in Italia non sono così solerti nel fare sentire la loro presenza quando i persecutori sono italiani. E alcune persone di sinistra entrano visibilmente in difficoltà al momento di condannare le violenze quando i persecutori sono immigrati, per paura di essere assorbiti nel frame dell’avversario. Queste contrapposizioni tipiche della comunicazione politica hanno contribuito a mantenere distinti i due frame, creando effetti grotteschi sotto il profilo della logica.
Oltre alla distinzione visiva relativa alle scelte delle immagini (da Facebook o dagli album famigliari), un altro elemento significativo che segna un confine simbolico visuale tra i due frame è quello relativo all’utilizzo di immagini di fiction. Il fatto che se ne faccia sovente uso in sostituzione di immagini di cronaca quando si tratta di violenze su donne italiane e non se ne faccia mai uso quando si tratta di violenze su donne straniere è un modo di mantenere ben separati i frame attraverso un utilizzo sistematico del materiale visivo.
Il Tg2, nell’edizione delle 18,15 del 7 Novembre 2013(1) è esemplare per dare conto dell’uso esclusivo di immagini di fiction nel raccontare il femminicidio, in questo caso prendendo spunto da un convegno sul tema della violenza di genere organizzato a Milano.
Se questa è una linea di distinzione visiva che risulta evidente per i telegiornali, c’è da dire che anche i quotidiani producono un racconto visivo dei due frame assai differente. Nel caso di femminicidi che riguardano donne autoctone, la figura del carnefice è raramente visibile e – ancora più sorprendente – le immagini di cronaca (luoghi, auto della polizia, la bara, ecc.) sono assai raramente presenti. L’immaginario tende ad essere riassunto dal volto della donna uccisa – con un’enfasi, nella scelta, per ragazze giovani e belle e fotografie che ne mostrano giovinezza e bellezza (perlopiù fotografie delle vacanze al mare, con la donna ritratta in costume).
L’immaginario che ne viene fuori è paradossalmente patinato e de-maschilizzato, in cui la violenza esperita viene sottratta allo sguardo e recuperata in forma simbolica in occasione delle giornate mondiali, attraverso le immagini delle manifestazioni, delle scarpette rosse o dalle illustrazioni, i disegni, le riproduzioni di manifesti e grafiche.
L’elaborazione, conscia o no che sia, di questa distanza tra spettatore e violenza maschile qua così evidente e là (dove i carnefici sono immigrati stranieri) così ridotta e riportata allo sguardo quotidiano dei tutori dell’ordine, può essere letta come la riprova di un asse ideologico “noi”/”loro” assai presente sui media nostrani. La proposizione di questa ideologia sembra assolvere, nel caso specifico dei racconti di femminicidi, la funzione di costruire una “indignazione a bassa intensità”, che provoca condanna per i colpevoli e strumento di discorso politico senza però produrre un discorso anti-maschile (sul modello di “uomini che odiano le donne”) che, se generalizzato, risulterebbe irricevibile, ma che risulta invece ricevibile quando il marcatore etnico di diversità entra in scena.
Infine vogliamo fare notare come non ci sia quasi mai, in questi racconti di violenze sulle donne un riferimento al fatto che la giustizia non ha trattenuto il persecutore già denunciato, al fatto che le istituzioni o i servizi sociali hanno lasciato liberi di muoversi uomini che erano risaputamente violenti. Anche quando questo dato viene indicato nelle cronache, non accade praticamente mai che si crei intorno ad esso una retorica dell’indignazione. Anche questa può essere una interessante traccia: il senso comune sulla giustizia inadeguata vale all’interno del frame della sicurezza ed è ben visibile in molti casi di cronaca che riguardano gli immigrati ma non sembra valere per il frame di genere che riguarda, come abbiamo visto, gli autoctoni.
1Per questioni legate alla concessione dei diritti Rai, siamo in attesa di poter pubblicare il video,ndr