Mar Mediterraneo, aprile 2011 - Oltre 100 migranti tunisini imbarcati dal porto di Zarziz attraversano lo stretto di Sicilia, in direzione Lampedusa. ©GiulioPiscitelli/contrasto

Immigrazione

di Raffaella Cosentino e Andrea Pogliano

Con l’ecatombe del naufragio del 3 ottobre 2013 a Lampedusa, diventata sui media una sorta di isola cimitero in un mare dei clandestini, le vittime della frontiera passano da effetti collaterali invisibili della gestione dei confini europei a presenza tangibile, mostrati all’infinito e a centinaia nei sacchi e nelle bare.

La Repubblica 4 ottobre 2010
La Repubblica 4 ottobre 2010

I morti del Canale di Sicilia fanno il loro tragico ingresso nella narrazione delle migrazioni irregolari, di cui la piccola isola nel Mediterraneo è diventata un simbolo mondiale. E sono immagini che pesano per le autorità europee in termini di consenso presso l’opinione pubblica. I quotidiani pubblicano in prima pagina le foto-ricordo recuperate dai relitti delle navi, mostrando i migranti nella loro quotidianità e vita privata, prima di perdere la vita in mare. Per un attimo, nell’istante della morte, i migranti cessano di essere solo numeri e diventano fantasmi con delle storie.

La Stampa 4 ottobre 2013
La Stampa 4 ottobre 2013

La disumanità del razzismo democratico diventa visibile a tutti con il video delle “docce per la disinfestazione antiscabbia”, cui vengono sottoposti i migranti nel centro di accoglienza di Lampedusa. È l’uso di immagini “non convenzionali”, non girate da giornalisti né da operatori dei media, a mostrarci i soccorsi in mare, la vergogna dei centri per immigrati, i corpi incastrati in un relitto in fondo al mare. Con smartphone, applicazioni e social network, 700 profughi siriani riescono a fare arrivare sul principale quotidiano online italiano le fotografie dall’interno di un mercantile alla deriva nel Mediterraneo. Queste immagini stanno alla narrazione mediatica degli sbarchi come le immagini delle torture nel carcere di Abu Ghraib stanno alla narrazione mediatica della guerra in Iraq. In entrambi i casi si tratta di immagini non prodotte da professionisti, che sovvertono il racconto non soltanto per il loro messaggio ma anche perché rompono le consuetudini, come un’ondata surrealista che buca la costante costruzione di quell’abitudine visiva che si tende a scambiare per la realtà.

Io Donna  10 maggio 2014
Io Donna 10 maggio 2014

Lo sbarco come immagine “top of the head” dell’immigrazione si ripropone con l’operazione Mare Nostrum, rappresentata qui da questo reportage di Io Donna, in cui si fa l’epopea del salvataggio e dei salvatori, non certo dei salvati, contati nei numeri da “esodo biblico” ma mai raccontati nelle loro storie di persecuzioni ed eroiche fughe dalla guerra. Si tende a dividere il mondo in un “noi” e un “loro” e a chiedere, implicitamente o esplicitamente, l’intervento di misure di sicurezza o di repressione.
l fortuna degli sbarchi come icona dell’immigrazione è stata costruita anche tramite il legame costante con la parola “invasione”. Questa parola ha assunto la forza di una metafora-ponte, che dagli sbarchi si è spostata in tanti altri contesti delle rappresentazioni dell’immigrazione in Italia.

L’Espresso 17 luglio 2014
L’Espresso 17 luglio 2014

Stupri e ghetti. Il caso dello stupro avvenuto nel 2009 al parco della Caffarella ha mostrato alcuni tratti di questa caccia agli invasori, trasformando i media in investigatori e i pubblici in un tribunale popolare. Tra confusioni, generalizzazioni, errori e vere scorrettezze deontologiche, il racconto giornalistico di quella vicenda mostra il peso delle immagini e delle loro assenze nel condizionare i racconti, ma mostra anche la necessità giornalistica di sovrapporre immagini reali a immagini mentali prodotte e riprodotte attraverso le parole, in un circolo di sovrapposizioni che generalizzano il sospetto a interi gruppi di immigrati, che siano definiti su base etnica o nazionale.
Mentre si dipingono i quartieri abitanti anche dalle comunità dei migranti come “ghetti”, si ghettizza la figura dell’immigrato su un duplice binario. Da un lato l’unico racconto che emerge è quello securitario, dall’altro si arriva a “biasimare le vittime” di questi fatti cronaca, per cui i rivoltosi di Rosarno diventano i colpevoli e i disperati del mare gli unici responsabili del proprio destino.

Repubblica 9 gennaio 2010
Repubblica 9 gennaio 2010

L’effetto domino. A contribuire in modo determinante nel dipingere a tinte fosche l’identikit dei migranti è l’informazione televisiva, grazie a meccanismi di produzione della notizia che si riscontrano con frequenza. Quando c’è un fatto di cronaca eclatante che ha come protagonista gli stranieri e che diventa terreno di scontro politico, la tendenza è quella di avere intere scalette dei telegiornali con una sequela di servizi tesi a sottolineare “tutti i crimini degli immigrati”. Da un lato si diffondono prevalentemente fatti di cronaca in cui gli stranieri sono autori di reati, sottolineando l’elemento della nazionalità; dall’altro si tende a leggere tutte le notizie riguardanti l’immigrazione in chiave securitaria. Si passa così dai ghetti di Rosarno alle classi ghetto. Nemmeno i bambini sfuggono a questo frame e si dice esplicitamente che con gli alunni stranieri “le scuole dovranno fare i conti”.

In generale, quando si parla di immigrati, il registro narrativo alterna vittimismo e sicurezza. Quando prevale il vittimismo è la volta degli “schiavi”, quando prevale il dibattito politico sulla sicurezza si parla dei “clandestini”o dei migranti che portano “spaccio e degrado”. Ma entrambe le letture sono lenti deformanti e creano distanza nell’opinione pubblica.
Più raramente i media provano a isolare dei soggetti, dipingendoli come eccezioni, icone esemplari di una diversità nella diversità, ponendoli così in un limbo tra “gli immigrati” e “noi”. Ma l’interesse per le loro storie resta un interesse narrativo per l’immigrazione. Nessuno esce dalla scatola per andare a passeggiare altrove. Il caso di Rachid, l’ambulante che si laurea a Torino, ne è un’utile illustrazione. La sua laurea assume interesse mediatico perché si tratta di un marocchino (pochi mesi dopo Rachid diventerà cittadino italiano, ma per i media la sua resta la storia del marocchino che si è laureato in ingegneria) e perché la sua laurea cade nei giorni dello shock per la tragedia di Lampedusa.

Sette Dicembre 2007
Sette Dicembre 2007

La storia di Rachid, così come quelle di “Hina, Sanaa e le altre” offrono più di uno spunto di riflessione su come i media rappresentino l’integrazione. L’enfasi che i media hanno posto su alcuni tratti tipici della storia di Hina Saleem sono il motivo stesso della sua iper-rappresentazione. Quella storia poteva cadere in pieno dentro il racconto caricaturale di cosa fosse il mondo islamico. Il caso dell’omicidio di Hina per mano del padre diventa un modo per ridefinire nell’ambito della cultura pop i significati sottesi a quella parola magica del dibattito sull’immigrazione che è la parola integrazione. E se lì finisce per significare rifiuto radicale della cultura d’origine, desiderio di “vivere all’occidentale”, e quindi soprattutto un moto eroico individuale piuttosto che un costante lavoro bi-direzionale nel quale l’Italia e le sue politiche contino qualcosa, nel caso di Rachid Kadiri, integrazione torna a voler dire successo personale, in termini vuoi economici, vuoi di status sociale raggiunto.

Panorama 16 ottobre 2003
Panorama 16 ottobre 2003

Eroismo e successo sono sempre doti eccezionali, mentre le molteplici storie di integrazione “normale”, non essendo quasi mai rappresentate, non contribuiscono a riempire di senso le parole magiche che fondano il nostro dibattito pubblico sull’immigrazione. Come sempre accade nelle operazioni di framing, ciò che conta è ciò che viene mostrato nel quadro in rapporto a ciò che sta fuori dalla cornice. Se “il vu cumprà che ce l’ha fatta” e “la ragazza musulmana che voleva togliersi il velo” diventano esempi emblematici degli immigrati che si integrano, tutti gli altri sono fuori e integrazione continua a fare rima con eccezione.

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