di Raffaella Cosentino
“Si sono ribellati alla ‘ndrangheta”. A dirlo è lo scrittore e giornalista Roberto Saviano commentando i fatti di Rosarno in un’intervista mandata in onda dal Tg3 serale dell’8 gennaio 2010, a ventiquattro ore dall’inizio dei tumulti.
Può sembrare strano ma gli immigrati sono gli unici negli ultimi anni ad aver mostrato la non sopportazione del potere criminale – spiega l’autore di Gomorra - Certo le modalità possono essere criticate. Incendiare le auto non è che porti a molto. Ma bisogna guardare oltre il modo, bisogna capire che sono stufi. Gli africani sono stufi di subire il dominio della criminalità che gestisce la vita e la morte. Sarebbe un errore criminalizzarli perché il rischio è spingerli poi nelle mani della criminalità cioè criminalizzarli sarebbe come dire: vedetevela tra voi. Andate a parlare con i capizona, organizzatevi voi. Bisogna invece vedere questo tipo di rivolte come elementi coraggiosi, benchè nelle modalità criticabili perché in quei territori dire no è davvero pericoloso. Chi si rivolta è la parte sana, non la parte malata perché la parte malata o la parte criminale non si rivolta ma utilizza i canali criminali. Va a parlare con i capi bastone, fa esecuzioni militari, non certo si fa vedere in piazza.”
E’ una lettura che definisce la rivolta di Rosarno come un momento storico, positivo e di cambiamento, in netta controtendenza con la narrazione dominante. Nel complesso del racconto di quei fatti è una voce solitaria fuori dal coro. Saviano è un commentatore autorevole, ma l’immagine della sommossa e dei rivoltosi data dai media generalisti è sostanzialmente negativa, violenta e semplificata, molto appiattita sullo scontro razziale fra bianchi e neri. Sulla cronaca, nella stragrande maggioranza delle testate esaminate, si registra una sostanziale omogeneità nel trattamento della notizia tra telegiornali e quotidiani, che puntano sull’azione e sulle immagini degli scontri. C’è un aspetto dell’associazione immagini-parole che accomuna le cronache della carta stampata e quelle dei telegiornali. Dal lato visivo prevale la ripetizione costante di sequenze ‘forti’ sulle prime pagine dei quotidiani, nei servizi degli inviati, nei pezzi redazionali, nelle copertine del tg commentate dai conduttori in studio.
Si insiste su dettagli violenti: africani che brandiscono spranghe e catene, cassonetti rovesciati, macchine sfasciate o vetrine dei negozi infrante, un piccolo esercito di agenti in assetto antisommossa in azione nella notte. Queste immagini sono spesso accompagnate da una terminologia linguistica vittimista, che vede nei braccianti di Rosarno degli “schiavi”. Il registro narrativo alterna vittimismo e sicurezza.
Quando prevale il vittimismo è la “rivolta degli schiavi”, quando prevale il dibattito politico sulla sicurezza si parla della “rivolta dei clandestini”. Ma entrambe le letture sono lenti deformanti e creano distanza nel lettore. Nella pagina in alto del Corriere della Sera dell’8 gennaio 2010 viene dato grande risalto ai “corpo a corpo” fra immigrati e poliziotti, richiamato anche nelle didascalie. Al centro della pagina c’è un africano colto nell’atto di minacciare un poliziotto con una grossa pietra che tiene sulla testa e sembra pronto a lanciare in avanti. Il riflesso dello scudo dell’agente crea un effetto di luce in mezzo alla fotografia, che si trova anche al centro della pagina e sembra puntare tutta l’attenzione del lettore su quel momento di guerriglia. Quel bagliore è quasi la visualizzazione della tensione, l’apice dello scontro. La foto principale è sormontata da altre tre che mostrano inequivocabilmente l’atteggiamento violento degli “extracomunitari”, come li chiama il titolo in alto a sinistra della pagina. Ad esempio la prima foto in alto a sinistra risalta per il pugno che arriva verso il lettore da parte degli africani in collera.
Un elemento qualificante della rivolta è fin dall’immediato la presenza dei “clandestini”, che non è sostenuta da informazioni statistiche certe, ma soltanto dall’impressione del momento da parte dei giornalisti. Guardando attentamente la pagina del Corriere scopriamo che questa associazione di idee non si limita al titolo in basso a sinistra: “I duemila clandestini della città di cartone arrivati in Italia per raccogliere agrumi”. Le infografiche ci informano, in sintesi, che ci sono 2mila immigrati arrivati a Rosarno per lavorare a 25 euro al giorno e che “sono per lo più clandestini”. Mentre l’articolo in basso a sinistra sottolinea “tutti uomini, quasi tutti africani, quasi tutti senza documenti, vivono accampati in condizioni disastrose e lavorano in nero”. In basso c’è un’immagine di una tendopoli. La sua collocazione in pagina ci mostra che le cause della violenza passano in secondo piano, citate ma schiacciate dalla notizia della guerriglia urbana.
La didascalia spiega che la foto è dell’Ansa e si tratta di una ex fabbrica, “una delle due strutture dormitorio da dove è partita la rivolta scatenata dall’ennesima sparatoria”, senza dire che i lavoratori africani sono vittime innocenti della sparatoria. L’uso del termine generico e vago “ennesima” è molto significativo perché, senza dare informazioni circostanziate, fa riferimento ad episodi del passato, lasciando immaginare al lettore un contesto di violenza legato alla presenza degli africani clandestini.
“Perché ennesimo ci fa pensare che l’episodio sia solo l’ultimo di una lunga serie, anche se il testo dell’articolo non lo dice” scrive Federico Faloppa nel suo Razzisti a Parole (laterza 2011). Ovvero non sappiamo cosa sia successo prima ma lo immaginiamo. Dall’articolo non otteniamo una cronaca dei fatti ma un’opinione e un pregiudizio condivisi fra il giornalista e il pubblico.
In questi primi articoli vengono tratteggiate a grandi linee le narrazioni che si affermeranno nei giorni seguenti. “Raccolto amaro” l’ha chiamato il quotidiano inglese Guardian. “E’ l’inferno sulla terra” ha detto la BBC. “Rosarno oggi è in fiamme, governata da un prefetto e famosa solo per i guai legati ai clandestini”. L’articolo principale descrive l’inferno di Rosarno. Nonostante si tratti di una cittadina in cui la presenza della ‘ndrangheta è oppressiva e i fatti delittuosi legati alla criminalità organizzata calabrese sono numerosi, tanto che il comune è stato commissariato, l’inferno di cui si parla qui è causato dalla presenza dei migranti irregolari: “Rosarno è una colonia di immigrati”; Rosarno è diventata “una piccola Beirut”; “sono stati attimi di terrore”; “La violenza degli immigrati avrebbe potuto avere conseguenze ancor più tragiche”.
Significativo il dualismo “etnico” che emerge fin dalle prime battute. “Gli immigrati, quasi tutti di nazionalità africana, hanno poi preso di mira le vetrine dei negozi del centro e le hanno distrutte a colpi di bastoni e spranghe”. Viene ricordata una protesta pacifica di due anni prima per chiedere un trattamento più umano e dignitoso. “Da parte del popolo bianco”. I principali elementi fotografici di questa pagina del milanese Corriere della Sera li ritroviamo anche nelle prime pagine degli altri due quotidiani che stiamo esaminando, La Stampa di Torino e La Repubblica che ha sede a Roma.
Nello specifico, il corpo a corpo in alto a destra sul Corriere viene riproposto in prima pagina dal quotidiano La Repubblica. Mentre l’immagine principale di questa pagina interna del Corriere diventa la prima pagina de La Stampa, che la pubblica in modo integrale.
Sul quotidiano torinese la fotografia è pubblicata con un campo più ampio, permettendoci di vedere che i poliziotti sono due, fianco a fianco, e che ci sono altri africani sullo sfondo. A questo punto è evidente che la fotografia sul Corriere è stata tagliata per veicolare l’immagine di uno scontro fisico del tipo “uno contro uno”. La fotografia integrale su La Stampa rimanda invece a scontri di massa e a una netta divisione di campo fra bianchi e neri. Il titolo è “Immigrati in rivolta, inferno in Calabria”.
I due scatti esaminati si alternano, in primo piano, oppure di spalla, in prima pagina o all’interno, su tutti i tre quotidiani esaminati.
La costruzione della prima pagina de La Stampa richiama il caos. La foto degli scontri è infatti accompagnata da queste parole: “la rabbia anti’ndrangheta della Rosarno nera, feriti, arresti e auto distrutte” e dalla didascalia: “la rabbia degli immigrati a Rosarno si è scatenata anche contro la polizia”. La potente immagine della “Rosarno nera” è associata a una violenza poco comprensibile. I neri ce l’hanno con la ‘ndrangheta ma anche con la polizia. “Qui è un macello, un macello”, dicono i poliziotti da Rosarno che va a fuoco – si legge nell’attacco dell’articolo all’interno - Una città italiana va a fuoco, i calabresi sparano agli immigrati e ne feriscono alcuni, gli extracomunitari mettono a ferro e fuoco il paese”. A livello testuale, La Stampa si distingue perché da un lato sottolinea nel titolo l’elemento razziale “la rivolta nera”, dall’altra è significativo il sottotitolo che spiega la causa della protesta “vessati dalla ‘ndrangheta”.
Ma l’immagine riproposta a tutto campo sulla destra, nel corpo a corpo fra un africano e degli agenti rafforza l’elemento razziale. Lo scatto sembra infatti volere sottolineare la possenza fisica dei “neri”. Vediamo un omone africano occupare il centro della scena, mentre viene agguantato da un poliziotto che lo afferra per la maglietta. Balza agli occhi che gli agenti che lo circondano sono armati fino ai denti ma in proporzione molto più piccoli fisicamente. L’africano a mani nude riesce a dare filo da torcere ai tanti agenti che lo circondano con caschi, scudi e manganelli.
E’ una scena confusa, che richiama il mito di “Davide contro Golia” e sono i poliziotti a trovarsi qui nel ruolo di “Davide”, e quindi a essere i “buoni” della situazione. Sul piano figurato, possiamo dire che gli agenti rappresentano lo Stato italiano, alle prese con il contenimento del problema degli immigrati tout court, confusi con i ‘clandestini’. A suggerire questa iconografia è il richiamo nel testo dell’articolo alla guerra etnica, una chiave di spiegazione visuale e testuale, che cerca di allargare lo sguardo oltre Rosarno, citando altre situazioni limite in diverse città italiane, accomunate sulla base della “densità di stranieri”: Un anno dopo, ci risiamo, in questo paese dannato da una specie di guerra etnica carsica, con cinquemila immigrati di 23 diverse nazionalità su una popolazione di 16mila abitanti, la terza zona d’Italia per densità di stranieri dopo Napoli e Foggia. ….
Le vittime dello sfruttamento diventano i colpevoli del degrado. Colpisce il titolo della didascalia nella pagina interna: “Nella sporcizia” che accompagna la foto della tendopoli usata anche dal Corriere. “Gli immigrati vengono sfruttati per il lavoro nei campi e vivono in capannoni sporchi e abbandonati”. All’interno dell’articolo questo aspetto delle condizioni disumane in cui vivono i braccianti, la grave emergenza umanitaria, viene inquadrato in una prospettiva che rovescia addosso agli africani la responsabilità delle loro condizioni di vita, in modo che le vittime dello sfruttamento diventano i colpevoli del degrado.
In questo contesto, con migliaia di immigrati irregolari ricattati e incapaci di darsi condizioni di vita accettabili (“Abbiamo provato a spiegare che devono pulire il posto in cui vivono non c’è stato niente da fare” racconta un volontario) è inevitabile che prima o poi la bomba scoppi. (Corriere della Sera 8 gennaio 2010)
La seconda didascalia che accompagna la foto degli scontri con la polizia e deIle barricate alzate con i cassonetti, focalizza l’altro termine della questione. “No al pizzo. Tutto è iniziato perché un immigrato è stato ferito con un fucile ad aria compressa, forse una punizione per non aver pagato il “pizzo”, una specie di permesso di soggiorno della criminalità”.
La sintesi di questa informazione è ripresa dal testo del reportage, dove si ipotizza un ruolo della criminalità organizzata che però ancora non si capisce bene quale sia. Per questo la notizia è abbastanza vaga:
E devono sottostare al ricatto della ‘ndrangheta che in fondo c’entra sempre: “Siamo vessati dalla ‘ndrangheta ci taglieggia come fa con i commercianti, ci paga 20 euro per una giornata di lavoro e ne chiede indietro 5 come tassa di soggiorno” altrimenti sono guai
Ieri alcuni immigrati sono stati colpiti con un colpo di carabina ad aria compressa. Probabilmente un atto punitivo, spiegano i testimoni, come reazione a un mancato pagamento. (Corriere della Sera 8 gennaio 2010)
Nonostante uno dei feriti colpiti dai proiettili sia un rifugiato, questo elemento non cambia la narrazione prevalente sull’inferno dei clandestini. Tanto che l’informazione viene data così nel testo dell’articolo:
Tra gli immigrati feriti anche uno dei pochi regolari: arriva dal Togo è un rifugiato politico.(Corriere della Sera 8 gennaio 2010)
Esaminando la stessa fotografia di guerriglia sulla prima pagina de La Repubblica, più in alto, vediamo meglio anche il resto della scena: il rivoltoso africano è esattamente il doppio del poliziotto che gli sta di fianco inquadrato di spalle. La Repubblica sceglie di associare a questa fotografia il commento “Il popolo degli ultimi”. Per l’inviato di Repubblica “è la rivolta degli ultimi, la rivolta dei neri che vagano per la nostra Italia”.
Queste sono le pagine all’interno:
“Hanno distrutto ogni cosa dopo aver subito l’ennesima provocazione. Gli extracomunitari della piana di Gioia Tauro si sono ribellati ed è stato il panico per un’intera serata. La rabbia è esplosa dopo che due di loro sono stati feriti da alcuni balordi che gli hanno sparato addosso con un fucile ad aria compressa. Senza un’apparente ragione, forse solo per divertimento”. (La Repubblica 8 gennaio 2010)
Rispetto alla spiegazione fantasiosa data da La Stampa sul “permesso di soggiorno della criminalità organizzata”, la descrizione fatta da La Repubblica nell’articolo di Giuseppe Baldessarro è più attinente ai fatti e alle informazioni disponibili nelle prime ore della rivolta. L’agguato agli africani è avvenuto senza una ragione apparente, non per responsabilità dei migranti, e probabilmente si tratta di un’usanza razzista dei giovani criminali del luogo, una sorta di “tiro a segno”. Lo spiega anche l’articolo in basso firmato da Salvo Palazzolo. “Un’aggressione e nessuno ci ha aiutati”. Baldessarro ha anche il merito di raccontare in poche righe le cause profonde del malessere sociale che cova tra gli stagionali, al di là dell’episodio contingente dell’aggressione a fucilate.
Quelli che hanno devastato Rosarno vivono accampati in condizioni disumane in alcune strutture in disuso della periferia. Dove i caporali passano la mattina per portarli negli aranceti per lavorare a 20-25 euro al giorno, dall’alba al tramonto”.
Rispetto a quanto scritto da La Stampa, anche sui feriti l’informazione è precisa e senza far trapelare pregiudizi:
A fare scoppiare la protesta, dunque, il ferimento di un nigeriano irregolare e di un rifugiato politico del Togo con permesso di soggiorno.(La Repubblica 8 gennaio 2010)
Baldessarro che è il corrispondente dalla Calabria, conosce bene il contesto e il territorio e già presagisce quale potrà essere la reazione dei rosarnesi. La sua cronaca ci dice infatti: le forze di polizia “temono la reazione dei locali che , a loro volta, mal tollerano gli stranieri”. Sempre grazie alla conoscenza dei fatti, il cronista di Repubblica ricorda un caso simile di due anni prima, che mostra come le denunce dei migranti abbiano portato ad arrestare chi li minacciava, in un contesto di omertà e impunità. Quella protesta fu pacifica per chiedere giustizia. “Cosa che avvenne, poche settimane dopo, con l’arresto del presunto autore dell’agguato”. Nella pagina a fianco, invece il reportage di Attilio Bolzoni assolve alla necessità di un commento per andare oltre la cronaca. Il racconto si concentra su “quasi il novanta per cento del popolo nero che si trasporta come animali in branco”, su quelli che “a migliaia, senza casa, vagano da una regione all’altra per i raccolti”, che vengono da vari paesi africani e sono “sbarcati come clandestini in Europa”.
Il problema viene inquadrato nella cornice degli sbarchi, del lavoro stagionale in agricoltura e nel contesto mafioso: “Oggi erano qui: nella Piana dove è padrona la mafia più feroce del mondo”. La spiegazione fornita è questa: “sono le ‘ndrine che succhiano il sangue agli ultimi. Le ‘ndrine che hanno le arance che hanno tutto nella Piana”. Quindi prevale l’idea che i migranti, costretti dalla fame, siano diventati mano d’opera per la ‘ndrangheta, senza che questo sia supportato da prove certe. Un racconto di questo tipo, associato all’immagine degli scontri che abbiamo analizzato in precedenza, focalizzata sul corpo a corpo tra immigrati africani e poliziotti, contribuisce a delineare uno schieramento su due fronti, in cui gli immigrati, volenti o nolenti, non si trovano mai dalla parte della legalità e dello Stato di diritto.
“Quei clandestini degli agrumi” titola in prima pagina il Corriere della Sera dell’8 gennaio e la “rivolta degli immigrati in Calabria” è significativamente vicina a livello visivo con l’editoriale “La fermezza e l’ipocrisia” e con le parole: “la legge, l’Islam, gli irregolari”. In questa vicenda l’Islam non c’entra niente, ma la parola viene richiamata perché tutta la vicenda della sommossa è inquadrata più genericamente in un frame interpretativo che collega l’immigrazione tout court all’ordine pubblico e alla sicurezza.
Nella pagina del Corriere che abbiamo pubblicato per prima, più in alto, vediamo che si parla addirittura di duemila ‘clandestini’, sarebbero dunque tutti irregolari gli africani di Rosarno! Questo titolo viene smentito da tutte le statistiche secondo cui la maggioranza (dal 60 al 90% a seconda delle annate) dei braccianti africani che si trovano a Rosarno possiede un documento di soggiorno, spesso per motivi umanitari o di protezione internazionale.
Il termine “clandestini” si associa alle immagini di scontri con polizia e carabinieri e alle parole del titolo in primo piano “guerriglia”. L’uso del termine ‘clandestino’ rafforza sul pubblico dei lettori l’effetto delle immagini degli scontri, di per sé già molto forti, secondo un meccanismo di produzione giornalistica abbastanza frequente in Italia che tende ad alzare il livello dello scontro politico invece che ad abbassare i toni, quando ci sono episodi particolarmente controversi e concitati. Mediante l’uso di una parola “calda” nel dibattito pubblico, a pochi mesi dall’introduzione del cosiddetto “reato di clandestinità”, si contribuisce però anche a stigmatizzare negativamente i rivoltosi. Le masse di clandestini, richiamati nei titoli come fuorilegge e associati alle scene di violenza, sono funzionali al ribaltamento della prospettiva reale dei fatti: gli africani da vittime diventano colpevoli del “disordine”, del “caos” e dell’ “inferno”, come abbiamo visto.
Ma anche il titolo di Repubblica “La rivolta dei diseredati d’Italia costretti nei campi dalle mafie” che apparentemente è “pro” migranti, in realtà è fuorviante perché rafforza il cliché degli immigrati manovalanza o sotto il controllo della criminalità. Mentre, come spiega Roberto Saviano nella sua analisi, i migranti si sono ribellati a Rosarno proprio perché rifiutano il controllo della ‘ndrangheta.
In effetti possiamo dire, da conoscenza sul campo della vicenda, che le ‘ndrine non controllano la produzione di agrumi nel senso di assoldare o assumere i braccianti, i quali invece hanno rapporti con i piccoli proprietari terrieri attraverso l’intermediazione illegale dei caporali africani. Quello che interessa alla ‘ndrangheta è il controllo della filiera degli agrumi, operato prevalentemente attraverso la logistica e la commercializzazione/distribuzione.
La mafia è una delle cause che strozzano i piccoli produttori e i contadini. La rivolta scoppia perché un commando, a oggi (2015 ndr.) mai identificato, spara a fucilate contro i neri che camminano per la strada. L’obiettivo dei clan è rafforzare il controllo sul territorio anche nei confronti di soggetti estranei, gli africani, e quindi non assoggettati al potere dei boss. La rivolta è la prova che i braccianti stranieri rifiutano questo atto di dominio sulle loro vite, a differenza dei rosarnesi, più “abituati” al codice dell’omertà.
Possiamo ritrovare anche in televisione il tipo di “impaginazione” visto in alcuni quotidiani che associa la violenza al vittimismo.In questo tipo di narrazione si dà voce unicamente alla massima autorità responsabile per l’ordine pubblico, il ministro dell’Interno, e ai politici dei diversi schieramenti. Si passa dallo scontro ‘fisico’ delle immagini sul campo, allo scontro politico fra maggioranza di governo e opposizione.
I protagonisti sono sempre i fuorilegge, i “clandestini”. Il Corriere della Sera che l’8 gennaio titolava a tutto campo sui “duemila clandestini” di Rosarno, il 10 gennaio allarga la contabilità ai “150mila clandestini del Sud Italia”. C’è una speciale classifica che valuta “la percentuale di clandestinità”, “le venti città più irregolari” in cui l’etichetta di ‘irregolarità’ passa dai migranti alle intere comunità cittadine. “Crotone è la città con la più alta percentuale di clandestinità. A Napoli i “senza permesso” sono undicimila” si legge in alto e ben in evidenza. Ovviamente questo rafforza il falso mito dell’invasione .
“Venticinque anni fa del clandestino era prevalentemente messo in evidenza il tratto semantico dell’invisibilità. Gli immigrati c’erano ma si vedevano poco – scrive ancora il linguista Federico Falloppa nel saggio Razzisti a Parole – Oggi invece i migranti clandestini sono visibilissimi, tanto da essere evocati con espressioni iperboliche da rovinarci il sonno: con i loro sbarchi, le loro ondate, le loro invasioni”.
La parola clandestino non può essere usata come sinonimo di immigrato. Al contrario della credenza comune che vede la maggioranza dei migranti come clandestini, i regolari (oltre 5 milioni) sono dieci volte di più degli irregolari (500mila). Ma il titolo del Corriere amplifica questa percentuale: “Sono il 30% degli immigrati, arrivano quasi tutti dall’Africa. Molti si muovono secondo la possibilità di lavoro in agricoltura”.
L’articolo si basa sull’intervista a un esperto, autore di un rapporto Ismu e collaboratore del Viminale. Secondo questa intervista “Al sud cresce moltissimo la percentuale di clandestinità rispetto ai regolari”, anche se in numeri assoluti sono inferiori.
L’immagine del bracciante di Rosarno, che è africano, povero, in precarie condizioni abitative e si sposta in massa da una bidonville all’altra, è la perfetta raffigurazione, in termini mediatici da associare alla parola “clandestino” per dare un volto allo spauracchio, al nemico del vivere civile per antonomasia, su cui testare il giro di vite securitario. Gli scatti provenienti da Rosarno vengono abbinati alle classifiche sulle “città con il più alto numero di clandestini”. Ovviamente non sappiamo se in realtà le persone al centro delle immagini siano effettivamente senza permesso di soggiorno o se invece siano rifugiati o lavoratori regolarmente presenti in Italia. Potrebbe configurarsi un abuso rispetto alla normativa sulla privacy. Il Testo unico di riferimento (dlgs 196/2003), nello stabilire quale principio generale che “chiunque ha diritto alla protezione dei dati personali che lo riguardano” (articolo 1), prevede che il loro trattamento a fini giornalistici “si svolga nel rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali, nonché della dignità dell’interessato, con particolare riferimento alla riservatezza, all’identità personale e al diritto alla protezione dei dati personali”.
Il Codice deontologico relativo al trattamento dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica tutela anche il diritto alla non discriminazione. “Nell’esercitare il diritto-dovere di cronaca, il giornalista è tenuto a rispettare il diritto della persona alla non discriminazione per razza, religione, opinioni politiche, sesso, condizioni personali, fisiche o mentali”. A questo si aggiunge quanto stabilisce la Carta di Roma codice etico di riferimento sulle notizie che riguardano l’immigrazione, approvata nel 2007 e quindi in vigore al momento della rivolta di Rosarno. La Carta prescrive di “adottare termini giuridicamente appropriati sempre al fine di restituire al lettore ed all’utente la massima aderenza alla realtà dei fatti, evitando l’uso di termini impropri”. E di “evitare la diffusione di informazioni imprecise, sommarie o distorte riguardo a richiedenti asilo, rifugiati, vittime della tratta e migranti”.
L’Ordine e il sindacato dei giornalisti “richiamano l’attenzione di tutti i colleghi, e dei responsabili di redazione in particolare, sul danno che può essere arrecato da comportamenti superficiali e non corretti, che possano suscitare allarmi ingiustificati, anche attraverso improprie associazioni di notizie, alle persone oggetto di notizia e servizio”. Infine, la Carta di Roma sancisce la protezione delle immagini dei migranti chiedendo di non identificarli. In questo caso non sappiamo se sono richiedenti asilo, rifugiati o vittime di tratta, tutte categorie protette presenti a Rosarno secondo le statistiche delle Ong.
C’è poi un punto della Carta di Roma ampiamente disatteso nelle cronache e nei commenti da Rosarno, questo: “Interpellare, quando ciò sia possibile, esperti ed organizzazioni specializzate in materia, per poter fornire al pubblico l’informazione in un contesto chiaro e completo, che guardi anche alle cause dei fenomeni”. Le informazioni contenute negli articoli vengono quasi tutte direttamente dagli inviati che le hanno raccolte sul campo, risultando viziate da opinioni, pregiudizi e vox populi, da fonti ufficiali come il ministero dell’Interno o da voci politiche di maggioranza e opposizione.