di Raffaella Cosentino
tg2 delle ore 13 del 15 gennaio 2010
Gli immigrati regolari in Italia sono oltre 5 milioni, dieci volte più degli irregolari. Erano 4 milioni e 919 mila all’inizio del 2010, anno in cui è stato trasmesso questo servizio. Contribuiscono per il 12,1% del Pil. Più della metà sono europei, di cui oltre un terzo sono comunitari, il 22 per cento africani e il 20 per cento asiatici. La prima comunità straniera è quella romena che conta un milione di persone. Tra i non comunitari al primo posto ci i marocchini (513mila), seguiti da albanesi (498mila) e cinesi (305mila). Nel 62 per cento dei casi risiedono al Nord, segue il Centro (24,2 per cento), mentre le province di Milano e Roma, da sole, detengono un sesto dei residenti (16,9 per cento).
Le comunità migranti sono molto poco raccontate dai media. Prendiamo questo servizio del Tg2 delle 13 del 15 gennaio 2010 come caso di studio rappresentativo del modo in cui si parla di queste realtà nella televisione italiana. La rappresentazione è inquinata dalla retorica dell’invasione e non riesce a “vedere” oltre la cornice della minaccia per la sicurezza, contribuendo a creare una profonda divisione sociale fra un “loro” e un “noi”. Il “noi” è quello in cui si identifica la maggioranza in Italia, vale a dire lo spettatore bianco, autoctono e cattolico. Per avere un’idea dell’effetto nell’opinione pubblica di questo tipo di racconto, si consideri che nello stesso anno in cui è andato in onda questo approfondimento, un sondaggio rivelava che il 65% degli italiani ritiene che in Italia vi sono più stranieri irregolari che regolari, il 56% che gli stranieri regolari contribuiscono ad aumentare la criminalità e il 57% lo pensa degli irregolari. (“Transatlantic Trends: Immigration” 2010).
La narrazione del Tg2 è fortemente influenzata dal taglio scelto: si decide di mostrare dove sono concentrati in Italia i quartieri abitati dagli immigrati, ricordando casi di cronaca che hanno destato preoccupazione nell’opinione pubblica, senza mai dare voce ai migranti stessi, e piegando il racconto dei fatti all’ottica in cui è impostato il servizio. Si tratta di una tipica costruzione giornalistica “a tesi”, in cui partendo da un assunto si mettono insieme le “prove” di quanto si dice. Qui l’affermazione da cui parte il giornalista nell’attacco del servizio è questa: “Non c’è solo Milano. Da Nord a Sud in Italia sono decine le situazioni dove la presenza massiccia di immigrati sta causando tensioni e degrado”. Lo spunto per questo approfondimento è dato dagli scontri nel capoluogo lombardo fra alcuni giovani appartenenti alle comunità latino americane e altri appartenenti alla comunità egiziana, avvenuti in via Padova, con la morte di un diciannovenne egiziano e una guerriglia urbana che si è scatenata in seguito. All’interno della scaletta del telegiornale, questo servizio è preceduto da un pezzo di cronaca da via Padova in cui la cronista ha raccolto testimonianze di paura nella comunità sud americana. Il primo servizio è stato confezionato “chiudendo” con il tema della scuola, che viene mescolato all’argomento degli scontri. Si dice che “la scuola di zona” è “una porta sul futuro, quello di questi bambini, adulti dell’Italia che verrà e quello di altre scuole d’Italia, che ora dell’immigrazione sentono solo parlare, ma che nel giro di pochi anni dovranno fare i conti con alunni stranieri”.
La questione va inquadrata politicamente. Gli scontri di via Padova arrivano un mese dopo quelli di Rosarno. Si tratta di due questioni estremamente diverse, che possono essere lette insieme solo sotto il profilo dell’ordine pubblico. Ma entrambe contribuiscono a sostenere l’idea politica del governo italiano che in quel momento stava promuovendo le “quote” in classe per gli alunni stranieri
(Vedi Parlare civile - Nuovi italiani)
Tanto che il Tg2 usa la significativa espressione “dovranno fare i conti con alunni stranieri”, incutendo una certa preoccupazione nell’opinione pubblica, mentre vengono mostrate le immagini dei bambini nelle classi.
La scuola e le seconde generazioni finiscono, insieme al resto, nel grande calderone della sicurezza. Nella scaletta di questa edizione del telegiornale (ore 13 del 15 febbraio 2010), l’argomento scuola fa da cuscinetto e da trait d’union fra gli scontri e i “quartieri ghetto” secondo una narrazione molto frequente nell’informazione televisiva italiana. La rivolta di Milano viene raccontata al Tg come “al centro del dibattito politico”, con un collage di posizioni dei partiti ma con una prevalenza della Lega Nord. Questo servizio sulle comunità viene lanciato dalla conduttrice in studio ricordando le parole del ministro dell’Interno, il leghista Roberto Maroni: “non servono rastrellamenti, serve un cambio di passo nelle politiche di accoglienza, evitando la formazione di quartieri ghetto”. In pochi secondi l’equazione immigrati=ghetto= degrado e criminalità è compiuta.
La percezione dell’immigrazione da parte dell’opinione pubblica nel 2010 risultava essere fortemente negativa. Ma in realtà non esiste una corrispondenza tra aumento degli immigrati e aumento della criminalità in Italia. A evidenziarlo era stata nel 2009 la ricerca “La criminalità degli immigrati: dati, interpretazioni e pregiudizi” promossa dall’Agenzia Redattore Sociale e realizzata dall’équipe del Dossier statistico immigrazione Caritas/Migrantes. Dal 2005 al 2010 su 650 omicidi di donne da parte di uomini, per il 79% dei casi l’autore del reato è stato un italiano. Dal 2001 al 2006 le condanne a carico di stranieri sono rimaste stabili, mentre fra il 1990 a il 2003 il numero dei permessi di soggiorno è aumentato di cinque volte. Quindi la criminalità straniera è diminuita. Un’altra statistica riporta che tra il 2005 e il 2008 la popolazione immigrata nel nostro paese è aumentata del 45%. Se l’equazione tra immigrazione e criminalità fosse vera, la criminalità crescerebbe in misura direttamente proporzionale all’aumento degli immigrati. I dati smentiscono, però, questa equazione: nello stesso triennio 2005-2008 le denunce contro stranieri sono aumentate del 19,9%, ovvero di quasi 26 punti percentuali in meno rispetto alle loro presenze nel Paese.
I miserabili. A tal proposito si è spesso sentito parlare di ‘ghetti’ ma l’uso di questa parola è scorretta nel contesto europeo, dove, anche nelle metropoli e nelle capitali, difficilmente esistono situazioni paragonabili alle composizioni ‘monoetniche’ dei ‘ghetti’ americani.
In Europa si potrebbe parlare di “quartieri sensibili“, spazi che rappresentano la sola possibilità abitativa per alcune categorie sociali. Un fenomeno collocato nel quadro di una ristrutturazione globale dello spazio urbano, secondo un processo di separazione spaziale, che conduce le differenti categorie sociali a vivere ‘fra loro”. Le “zone urbane sensibili” sono quelle in cui si concentrano gli elementi più vulnerabili della popolazione. I media tendono a evidenziare le situazioni più degradate e questo contribuisce a costruire quella visione complessivamente catastrofica, secondo “un immaginario miserabilista”(Castel R., La discriminazione negativa. Cittadini o indigeni? , Quodlibet Macerata 2008). Secondo il sociologo francese che ha studiato le banlieue parigine, non si tratta di “immigrati” propriamente parlando, perché la maggioranza di loro è nata in Europa, ma comunque è ‘figlia dell’immigrazione’ nel senso che i loro genitori sono stati immigrati. Quindi è errato descriverli come completamente separati dalla società maggioritaria, non vanno considerati degli esclusi confinati in ghetti, perché condividono pratiche e aspirazioni comuni alla loro classe di età. L’immagine del ghetto, importata dagli Stati Uniti, qualifica zone etnicamente omogenee, abbandonate a se stesse e che vivono in quasi-autarchia. All’opposto del ghetto razziale americano, i quartieri periferici delle città italiane si caratterizzano per la loro eterogeneità etnica. Anche nei quartieri più ‘meticci’ la popolazione di origine italiana è sempre maggioritaria e le altre componenti etniche sono varie. La realtà del ghetto americano rinvia a un’immagine stigmatizzante di deprivazione sociale e violenza, che serve anche a ‘biasimare la vittima’.
Le comunità più “invise” all’opinione pubblica. Questo processo lo vediamo anche nel modo in cui prosegue il servizio del Tg2: “I fatti più recenti di cronaca ci riportano a Reggio Calabria con la rivolta degli immigrati di Rosarno, ma pochi chilometri più a Nord c’è un’altra situazione difficile, quella di Castel Volturno, in provincia di Caserta, terra di spaccio e degrado, teatro nel 2008 di un eccidio di immigrati”. Di contro, raccontano Laura Galesi e Antonello Mangano nel libro Voi li chiamate clandestini (Manifestolibri, 2011), “nessuna delle tre inchieste di Rosarno sullo sfruttamento si sarebbe fatta senza l’essenziale collaborazione degli stranieri. La testimonianza dell’unico sopravvissuto alla strage di Castel Volturno ha permesso di sgominare l’ala stragista dei casalesi, e dunque di salvare molte vite italiane. […]Tutto questo non è mai stato riconosciuto pubblicamente. Anzi, c’è ancora chi offende le vittime e le indica come soggetti poco limpidi nonostante le conclusioni in senso opporto delle indagini”. Tra le diverse comunità di stranieri, una delle più invise negli anni passati all’opinione pubblica è stata quella romena, probabilmente anche perché è la più numerosa. (Cfr la scheda “Il racconto politico-mediale dello “stupro della Caffarella” )
I romeni sono stati criminalizzati e sono noti gli episodi di cronaca che li hanno visti nel ruolo di autori di reati (omicidio Reggiani, stupro di Guidonia, stupro della Caffarella). Sconosciute invece le tante vicende in cui dei lavoratori romeni hanno perso la vita in Italia. Lo scrittore Antonello Mangano ne ricorda tre. Ovidiu Candea, 23 anni, ucciso mentre si trovava in un campo di broccoli con il datore di lavoro calabrese. Il romeno è rimasto vittima innocente di un agguato mafioso diretto a uccidere l’italiano. Era il 6 gennaio 2007. Cornelia Doana aveva solo 17 anni, è stata uccisa la notte di capodanno del 2007 con una calibro 7,65 con la matricola abrasa. E’ morta per una vendetta: aveva osato lasciare un uomo di Rosarno (Rc) violento e inaffidabile. Damoc Emaoil, 34 anni, rumeno, è morto fulminato dai cavi elettrici a 15 mila volt per un incidente sul lavoro a febbraio 2008. Era solo in cima a una gru mobile. Ha lasciato la moglie e una figlia nel veronese, dove viveva. Lavorava per una ditta edile veneta. Kwame Antwi Julius Francis, Affun Yeboa Eric, Christopher Adams del Ghana, El Hadji Ababa e Samuel Kwako del Togo; Jeemes Alex della Liberia sono i sei immigrati africani, vittime innocenti della strage di San Gennaro, avvenuta il 18 settembre 2008 a Castel Volturno a opera di un commando del clan dei casalesi. Dalle indagini è emerso che nessuno degli immigrati (tutti giovanissimi, il più “anziano” aveva poco più di trent’anni) era coinvolto in attività di tipo criminale con bande italiane o straniere. Ayiva Saibou togolese, Dabre Moussa del Burkina Faso, Oumar Sibisidibi e Manden Musa Traorè della Guinea Conakry sono 4 dei quasi 40 migranti feriti a fucilate o a sprangate dagli italiani a Rosarno durante la caccia ai neri del gennaio 2010. Ayiva è stato il primo ad essere colpito mentre semplicemente camminava per la strada. Gli hanno sparato all’altezza dei genitali sulla statale 18, il 7 gennaio 2010. Da questo atto di violenza razzista è nata la rivolta dei migranti. Gli altri sono stati colpiti alle gambe da pallini da caccia, con le cartucce che si usano per gli uccelli ed esplodono dentro la pelle come piccole bombe a grappolo. Si terranno per sempre nelle gambe questo ricordo di piombo. I pallini non si potevano estrarre, solo curarne le ferite. Nel servizio del Tg2, in pochi istanti anche il tema dell’imprenditoria immigrata si configura come una minaccia. “A Roma si fa sempre più pesante il clima intorno a piazza Vittorio, quartiere esquilino, ormai passato di fatto alla comunità cinese anche se a Prato e siamo in Toscana dove la tensione è altissima. I residenti e i commercianti devono fare i conti anche qui con la Cina che si sta mangiando intere fette di mercato e non è solo quello tessile. Adesso i cinesi puntano anche sulla ristorazione. Dalla Toscana all’Emilia Romagna il passo è breve. A Sassuolo, in provincia di Modena, uno su quattro è immigrato. I furti, specie nei negozi, sono all’ordine del giorno, i commercianti sono esasperati”. L’imprenditoria immigrata fa dell’Italia uno dei paesi che più beneficia del contributo degli stranieri. Secondo una stima di fine 2010, nei 5 anni precedenti l’imprenditoria straniera è cresciuta del 40%, con un totale di 435 mila imprenditori stranieri. I settori economici sono le costruzioni, il commercio e il manifatturiero.
Il notevole aiuto all’Italia apportato dalla popolazione immigrata non compare in tv. Gli stranieri sono più giovani (in media hanno 32 anni, 12 in meno degli italiani), incide positivamente sull’equilibrio demografico con le nuove nascite (circa un sesto del totale) e sulle nuove forze lavorative, è lontana dal pensionamento e versa annualmente oltre 7 miliardi di contributi previdenziali, assicura una maggiore flessibilità territoriale e anche la disponibilità a inserirsi in tutti i settori lavorativi, si occupa dell’assistenza delle famiglie, degli anziani e dei malati. Secondo il Dossier Caritas/Migrantes 2011 i lavoratori immigrati al 1° gennaio 2011 erano 2 milioni 89 mila (dato Istat). Costituiscono un decimo della forza lavoro, sono determinanti in diversi comparti produttivi e rinforzano il mercato occupazionale per via di un tasso di attività più elevato, della disponibilità a ricoprire anche mansioni meno qualificate e della bassa competizione (almeno sul piano generale) con gli italiani. In particolare, spesso la rappresentazione dei cinesi in Italia è viziato dal mito hollywoodiano di Chinatown. Quindi di una percezione che le vede come zone esotiche, pericolose e immorali, di un mondo in cui la legge e la giustizia sono sospese e succedono cose inspiegabili. Negli Stati Uniti, alla fine del XIX secolo, la “chiusura” al mondo esterno delle Chinatown fu diretta conseguenza del fatto che i cinesi erano fortemente discriminati. Schiavizzati sul lavoro, con salari molto bassi e condizioni di impiego molto difficili, lavorarono nelle miniere della California e nella costruzione della ferrovia transamericana, che congiunge l’Atlantico con il Pacifico. “Nelle società occidentali gli immigrati cinesi hanno sempre avuto una connotazione negativa ed abbondano i luoghi comuni nei loro confronti – scrive in un articolo online Nicola Montagna, dottore di ricerca alla Middlesex University di Londra che ha studiato il fenomeno - Il cinese è lo straniero per eccellenza, è chiuso, difficilmente avvicinabile, che non riesce a integrarsi nella società cosiddetta d’accoglienza ed ha sempre qualcosa da nascondere. Queste convinzioni trovano ospitalità anche nel cinema e nella letteratura per cui il cinese è un personaggio ambiguo e misterioso […] Sono gli stessi immigrati cinesi a denunciare il modo in cui la società occidentale guarda a loro”.
In Italia spesso vengono raffigurate come Chinatown il rione Esquilino a Roma o via Paolo Sarpi a Milano, suscitando le proteste di studiosi ed esperti del fenomeno che nella realtà italiana vedono poco in comune con le Chinatown americane . In realtà, i quartieri italiani a forte concentrazione di attività commerciali cinesi, restano zone miste, dove convivono italiani e stranieri di diverse nazionalità. Questo succede perfino nel capoluogo lombardo, dove l’area cinese del quartiere Canonica-Sarpi esiste dal 1920. Un secolo fa si trattava di una zona popolare situata fuori le mura e i cinesi erano artigiani che vivevano in case-laboratorio dove confezionavano cravatte. A partire dall’inizio degli anni Ottanta, c’è stato l’arrivo massiccio di nuova forza lavoro, soprattutto dalla regione dello Zhejiang, grazie alla riapertura delle frontiere cinesi dopo le riforme verso l’economia di mercato. I cinesi sono stati il primo gruppo di immigrati stranieri in Italia, gli unici stranieri insediatasi in Italia prima del secondo conflitto mondiale, dopo l’esodo degli albanesi di Skanderberg nel secolo XVI . Quartieri di Milano, come via Sarpi o via Padova, che servizi come questo del Tg2 cercano di mostrare come ghetto degli stranieri, non sono mai stati abitati da soli immigrati. Si tratta di zone della città che hanno subito un processo di “gentrificazione”, cioè sono passate negli ultimi anni da quartiere periferico e popolare a luoghi in cui è diventato molto costoso abitare. Motivo per cui la stragrande maggioranza della popolazione è italiana. Ma con questo tipo di descrizione, i media sembrano rafforzare lo stereotipo radicato tra i residenti che i cinesi “fanno massa” e questo insinua diffidenza.
“Non va meglio a Brescia, il quartiere Carmine è una casbah: ci sono 62 etnie differenti. Spaccio, prostituzione, lavoro nero, la tensione fra gli immigrati è alle stelle”. (dal Tg2 delle 13 del 15 gennaio 2010 )
Vere e finte casba. L’uso del termine arabo casba fatto dal Tg2 è indice di una strategia discorsiva in cui l’emittente (giornalista) e il ricevente del messaggio (spettatore) sono d’accordo sul significato di questa parola, vale a dire sulla connotazione negativa della casba. In arabo la casba è semplicemente il centro storico delle città del Nord Africa. Famosa è quella di Algeri, in cui è ambientato il film cult francese degli anni Trenta Pépé le Moko (Il bandito della Casbah), con Jean Gabin. In questi casi, la tendenza ad ‘etichettare’ tipica della quotidianità giornalistica, rischia di connotare negativamente anche le persone che abitano in certi luoghi delle città italiane, ‘ghettizzati’ a livello mediatico. In Italia l’unica vera casba è quella di Mazara del Vallo in Sicilia, splendida eredità della dominazione araba durante il medioevo. Una struttura urbanistica caratterizzata da un intersecarsi di stradine strette e tortuose, costruite in questo modo prima dell’anno 1000 per difendersi dal sole, dal vento e dagli attacchi dei nemici. In questa zona risiedono con le famiglie circa 3000 immigrati, provenienti in larga parte da Tunisia e Marocco, impiegati da oltre 25 anni come marinai sui pescherecci della flotta cittadina o in agricoltura. Ma, in senso figurato, ormai si parla di casba alla stregua di ghetti e favelas, per descrivere luoghi degradati, in cui regna il disordine e l’illegalità. Merce ghiotta per creare casi giornalistici ma questo trattamento delle notizie rischia di creare allarmismo e di acuire le tensioni sociali in realtà già difficili delle nostre città.
Con le etichette di casba e suk si accende l’attenzione su “luoghi reietti all’interno di quella che è diventata una vera e propria geografia (e toponomastica) dell’alterità, della marginalità - secondo Federico Faloppa, linguista internazionale - Il suk, ad esempio, non indica più un luogo dove su mercanteggia, spesso in modo caotico, ma fa riferimento alla presenza di altri, magari antagonistici rispetto agli autoctoni ”. Secondo Faloppa, queste parole sono associate al “degrado” e “alla mancanza assoluta di regole e legalità” Se si considera come si conclude il servizio, si vede che l’elenco di casi “difficili” (per usare le parole del giornalista) porta a elogiare l’ideologia politica della sicurezza come soluzione di tutti i mali.
“Difficile la convivenza anche a Verona. Il quartiere Veronetta è un rifugio di clandestini e spacciatori simili a quello che un tempo era via Anelli a Padova. Va meglio invece a San Salvario a Torino. Qui il lavoro svolto dal comune e dalle forze dell’ordine per mettere pace tra le 36 etnie sta cominciando a dare i frutti. I commercianti che negli anni passati avevano alzato bandiera bianca stanno lentamente tornando alle loro attività”. (dal tg2)
Associazioni improprie fra parole e immagini. In questo servizio risulta particolarmente stigmatizzante verso molte comunità di immigrati l’uso del tipo di immagini che vengono associate al testo scritto dal giornalista. Si tratta spesso di immagini di repertorio non indicate come tali (rivolta di Rosarno). Si vedono ambulanti africani inquadrati in primo piano mentre si parla di Castel Volturno come di una “terra di spaccio e degrado”, lasciando intendere un’associazione discriminatoria del tipo: africano=spacciatore. Mentre viene descritta la minaccia dell’invasione cinese, le immagini mostrano assembramenti di cinesi per la strada (non si sa dove esattamente) che stanno semplicemente parlando fra loro. La frase “i furti sono all’ordine del giorno” va insieme a inquadrature di panni stesi in alloggi di fortuna e di tre uomini che parlano per strada. Si vedono due uomini ripresi a distanza con un pacco sotto il braccio. Non abbiamo modo di comprendere a cosa esattamente si riferisca la scena. Quando si evoca la “casba” quello che lo spettatore vede èun normale mercato in una piazza. Ci sono stranieri per strada che si danno la mano. Donne italiane e straniere al mercato compaiono nel momento in cui si parla del “rifugio di clandestini e spacciatori”. La minaccia viene anche evocata a livello visivo come pericolo islamico nel momento in cui si fa vedere la classica immagine di una coppia in cui la donna indossa il velo.