di Andrea Pogliano
La modalità del racconto presentata nelle precedenti schede non è peraltro prerogativa della fotografia e della carta stampata.
L’autorappresentazione della seconda generazione. Anche i telegiornali offrono esempi in questo senso. Ad esempio, il 18 Novembre del 2009, il Tg3 pomeridiano e poi quello serale, presentano dei servizi sull’Associazione “rete G2”, in occasione di una proposta portata in parlamento da una delegazione dell’associazione. Oltre alla costruzione di un racconto tutto giocato visivamente sui primi piani e sulla “restituzione dei nomi ai volti” in questione (si noti che questo avviene solo per le categorie suddette o per le vittime – se non minorenni – o i rei della cronaca nera, o per le rare interviste di un “rappresentante” di un certo mondo, come nel caso di alcuni musulmani – perlopiù imam – intervistati in seguito a fatti trattati come questione di dialogo inter-religioso: tutti gli altri immigrati restano anonimi e spesso privi di volto), sono interessanti altri due aspetti. Il primo è che i racconti di queste categorie sono sovente aperti alle auto-rappresentazioni.
Nel caso specifico, l’autorappresentazione è data dall’uso, nel telegiornale, di un video prodotto dagli stessi ragazzi della “rete G2”, che si raccontano e esplicitano la loro richiesta (rivedere la legge sulla cittadinanza). Questa questione dell’utilizzo di auto-rappresentazioni è un carattere di novità che merita attenzione e che si ritrova anche nei casi in cui ad essere utilizzate sono altre forme di autorappresentazione (le fotografie tratte dalle pagine Facebook, i video digitali autoprodotti aventi una natura amatoriale, eccetera) (Cfr la scheda: Hina, Sanaa e le altre o, recentemente, nella novità delle immagini amatoriali trovate addosso ai richiedenti asilo vittime del naufragio del 3 Ottobre 2013 Cfr la scheda: 3 ottobre 2010 - Lo spartiacque ).
Sono elementi di novità nel panorama visivo dell’immigrazione sui media, perché contrastano l’abituale racconto visivo dell’immigrazione fatto parzialmente o totalmente fuori da un sistema di controllo dell’immagine da parte delle persone filmate e fotografate. Il controllo sulla propria immagine è una forma di potere simbolico non trascurabile. Le immagini “documentaristiche” che caratterizzano le rappresentazioni degli “immigrati speciali”, degli “altro che vu cumprà”, degli “immigrati a chi?”, che stiamo qui trattando, sono già una via di mezzo tra l’auto-rappresentazione e il furto di immagine a fini di cronaca e, come tali, sono esercizi di restituzione di un controllo da parte dei soggetti ritratti sulla propria esposizione pubblica. Il secondo aspetto interessante che arriva da questi servizi dei telegiornali riguarda invece l’insistenza sull’italianizzazione dei soggetti in questione. E’ un aspetto meno evidente ma decisamente significativo e asseconda una modalità che è tipica anche della carta stampata.
L’italianizzazione. Presentare gli immigrati “diversi” (l’immagine di fondo che fa da confronto è sempre questa massa indistinta di miserabili senza pretese) come italiani o, almeno, come in parte italiani o in via di italianizzazione è un meccanismo narrativo che utilizza varie strategie. Si parte dalla scelta – tra le figure “esemplari” proposte dai media per parlare di integrazione – di immigrati/e sposati con italiani/e o di immigrati con cittadinanza italiana, o ancora di musulmani con un percorso formativo in scuole cattoliche, fino all’uso costante di riferimenti al fatto che gli “immigrati speciali” parlano un italiano perfetto o parlano addirittura in dialetto regionale, o tifano una squadra di calcio locale o stravedono per una star italiana o, ancora, si vestono da Occidentali o fanno ampio uso delle tecnologie (come se fosse una prerogativa degli occidentali).
In questo servizio ad esempio si inizia parlando di Abba come di un “italiano di pelle nera…accento lumbard”. Poi, parlando dei ragazzi di seconda generazione li si definisce così: “quelli che… non sono mai usciti dall’Italia, che parlano dialetto, scrivono SMS, ascoltano l’iPod e giocano a pallone: ragazzi italiani a tutti gli effetti, nessuna differenza, nessuna”. Parlando del diritto di questi ragazzi alla cittadinanza si dice: “Un diritto quasi scontato per chi come loro parla milanese, napoletano, bergamasco, beronese e romanesco”. Nel servizio del Tg3 delle 19, vengono invece presentati così: “Pelle nera, occhi a mandorla, treccioline per capelli. Eccoli i ragazzi della rete G2, sembrano turisti stranieri. Invece sono italiani, anzi, italianissimi”.
Questa forma di “italianizzazione” culturale dei soggetti in questione è rintracciabile su tutte le categorie alle quali si accennava, con diversi gradi di inclusione.
Ad esempio sulle “colf e badanti” si fa spesso riferimento al fatto che sono cattoliche, si usa spesso l’espressione “casa nostra” o “le nostre colf”. Per gli indiani Sikh si parla sempre del Parmigiano Reggiano, il prodotto italiano certificato che loro contribuiscono a produrre attraverso la mungitura; si usano anche qui molto spesso delle formule per includere questi “immigrati speciali” nella comunità del “noi”, degli italiani. “Il Sikh munge insieme a noi” è ad esempio il titolo de L’Espresso del 15 giugno 2000; “I romani col turbante” è il titolo di Famiglia Cristiana del 12 agosto 2007.
Gli imprenditori stranieri “di successo”. L’approfondimento del Tg 2 delle 20,30 del 16 Novembre 2012(1) , sull’imprenditoria straniera in Italia si inscrive in questo registro. Le due storie di imprenditori stranieri “di successo” riguardano un immigrato di origini egiziane, cittadino italiano che parla in dialetto romanesco e un’immigrata di origini cinesi, cittadina italiana, sposata con un italiano.
Il primo dei due servizi viene lanciato con queste parole: “Ed ecco un caso esemplare. Dimitri, arrivato 40 anni fa in Italia faceva il lavavetri. Oggi ha un’officina tutta sua”. Come nel caso di Rachid, anche Dimitri subisce la “riduzione a vu cumprà” per meglio raccontare il suo successo e per restituire, ancora una volta l’immagine di sfondo della miserabilità degli immigrati non “esemplari”. Infatti, dal servizio si capisce che Dimitri il “lavavetri” nel senso in cui è ovviamente inteso, non l’ha mai fatto, ma prima di mettersi in proprio lavorava in un’autofficina e si occupava, tra le altre cose, anche di lavare le auto. Peraltro aveva conseguito un diploma da perito meccanico in Egitto prima di partire per l’Italia, negli anni Settanta del secolo scorso. Anche Rachid viene esposto alla retorica dell’italianizzazione. Esemplare in tal senso è il commento del Tg3 alla finta lettera di Rachid su La Stampa, riferendosi alla quale il giornalista dice “ha scelto di dirlo con una lettera pubblicata su La Stampa, da buon torinese”. D’altronde già Magalli, durante la puntata de I fatti vostri e poi Gramellini nella sua “Buonanotte” insistevano sul fatto che Rachid e i suoi fratelli, svolgendo l’attività di venditori, approcciavano i passanti in dialetto piemontese. E’ proprio questa necessità di caratterizzare questi “immigrati speciali” sia come immigrati (il loro racconto sta sempre tutto dentro il racconto dell’immigrazione, come casella specifica e impossibile da superare), sia come altro (“sembrano turisti stranieri”, fanno famiglia con italiani, ecc.), la vera cifra di questi racconti il cui principale risultato è quello di identificare gli immigrati non speciali (ovvero tutti gli altri) con il ghetto etnico, la incapacità ad aprirsi e a integrarsi, l’arretratezza culturale e tecnologica: insomma, con quella immagine stereotipata ormai vecchia di 30 anni del “Terzo Mondo in mezzo a noi”.
I soggetti docili. Un terzo aspetto che caratterizza il racconto degli “immigrati speciali”, oltre all’italianizzazione e alla restituzione parziale del controllo sulla propria immagine, è legato alla docilità dei soggetti che vengono raccontati per riempire quella casella o categoria del pensiero. Non sorprende che la Lega Nord, nel chiedere al sindaco di Torino che venisse consegnato a Rachid il Sigillo Civico utilizzasse, per tramite dell’esponente Fabrizio Ricca, adducesse anche queste motivazioni legate al carattere: “Per me è un esempio di gentilezza e anche di capacità di farsi benvolere da chiunque l’abbia incontrato” (da La Stampa del 10 Ottobre 2013, p. 49). Sorprende, o dovrebbe sorprendere, che questo stesso approccio che lega l’integrazione alla mansuetudine e alla docilità dei soggetti trattati come esemplari lo si ritrovi un po’ ovunque nel giornalismo, e venga sempre enfatizzato per definire l’immigrato integrato da contrapporre alla solita massa indistinta. Gli articoli sugli indiani Sikh e su “colf e badanti” ad esempio sono pieni di parole e espressioni come “laboriosi”, “discreti”, “tranquilli”, “grandi lavoratori che hanno poche pretese” (si veda “Facce da straniero”).
Nel servizio del Tg3 sopra citato, la scelta della parola “educatamente” nell’unica frase in cui si descrive l’azione della “rete G2” per portare all’attenzione del Parlamento la loro richiesta è anch’essa esemplare (“E così questi italiani non cittadini si sono uniti per chiedere al Parlamento, educatamente e semplicemente, il diritto di essere riconosciuti cittadini italiani fin da minorenni”). Esempi del genere non mancano mai nei servizi sui racconti di questi “immigrati speciali”. Anche nel caso della laurea di Rachid ne troviamo molti, sia nel giornalismo, sia nei programmi di approfondimento e/o intrattenimento. Da Gramellini che specifica che “Rachid è sempre stato pro, mai contro qualcosa”, dopo aver raccontato la sua reazione al pestaggio con insulti razzisti, a Magalli che nel presentarlo, dopo aver detto che faceva il venditore ambulante, dice: “E lo faceva bene però, era simpatico, si faceva voler bene”, per approdare agli articoli come quello di Repubblica scritto da Paolo Griseri e agli altri articoli e servizi: in tutti si assiste a un’enfasi particolare nel raccontare l’eroe nei termini di una persona profondamente buona e benvoluta.
Le tre caratteristiche dell’ “immigrato integrato”. Nell’articolo da me pubblicato con Viviana Premazzi su “Sociologia italiana” analizzavo questo percorso narrativo con queste parole, che qui riporto in un’ottica di sintesi:
I soli soggetti che varcano sistematicamente il confine delle narrazioni contraddistinte da un frame della disperazione sono pertanto soggetti che vengono a) isolati visivamente anche attraverso specifiche tecniche visuali e b) descritti come portatori di una o più delle seguenti caratteristiche:
- il raggiungimento del successo socio-economico, in chiara contrapposizione allo stereotipo del migrante come soggetto miserabile e trattenuto nella rete del crimine o nei confini del «ghetto» (l’immagine della Chinatown);
- la docilità/mansuetudine con la quale svolgono attività utili alla società d’arrivo … in contrapposizione all’immagine preponderante del migrante come deviante o criminale o come «approfittatore»;
- la scolarizzazione nel paese d’arrivo e la parallela assimilazione della cultura pop, in contrapposizione allo stereotipo del migrante come poco scolarizzato e fortemente legato a costumi e a valori tradizionali. …
Successo, docilità e conformismo, nella forma di un’adesione alla cultura mediatica (dello spettacolo) nazionale o più largamente [della cultura del consumo] occidentale, sono i tre vertici intorno ai quali i media danno forma a quella figura che definiscono implicitamente come «straniero integrato». A queste caratteristiche viene a sommarsi il dato non secondario del sorriso e dello sguardo ricambiato, elementi tipici della costruzione visiva di questi soggetti e chiaramente contrapposti all’immagine ben più diffusa dell’immigrato disperato.
Il racconto mancante della fede dell’ “eroe”. Infine, il caso della mediatizzazione della laurea di Rachid è l’ennesimo caso in cui il “marocchino” viene raccontato senza alcuna connessione con la fede musulmana (nemmeno un riferimento, sui media, alla fede dell’eroe Rachid), così come i musulmani sono da anni raccontati senza alcuna connessione con la loro vita quotidiana (il loro lavoro, la famiglia, ecc.) a meno che non finiscano in cronaca nera. ( Cfr la scheda: Hina Sanaa e le altre ) . In pratica, o sei un “marocchino” o sei un“islamico”, ma i due mondi non comunicano, fanno parte di due racconti giornalistici rigidamente distinti. Una cosa del tutto simile avviene per i vari neri musulmani che non sono mai raccontati come musulmani e che sono passati dall’essere quasi tutti “vu cumprà” (anni Ottanta) all’essere stati quasi del tutto confinati, insieme alle prostitute dell’Est, sotto la categoria degli “schiavi” (dalla seconda metà degli anni Novanta), con il solo riferimento alla raccolta di frutta e verdura nelle campagne del Mezzogiorno. (Cfr la scheda: Rosarno). Anche in quel caso, una cosa è la fede religiosa, un’altra cosa è la condizione sociale e lavorativa.
Riesce difficile dire se la produzione di categorie rigide, che non comunicano tra loro (il clandestino dell’altro ieri è il “regolare” di ieri e magari l’irregolare di oggi, ad esempio) può essere trattata riferendosi alla sola produzione di immagini. Di sicuro non si può però neppure dire che è solo opera dei testi scritti, con le immagini che coprono un puro ruolo illustrativo. L’illustrazione finisce per fissare, alla lunga, la categoria nella quale sempre viene inserita.
Al tempo stesso, l’archiviazione digitale e l’uso delle parole-chiave per “pescare” le immagini dagli archivi ha sviluppato una sua codificazione forte. Sull’Islam questa codificazione è particolarmente evidente, al punto che musulmani in fotografia sono solo le donne col velo e gli uomini nell’atto della preghiera di gruppo in luoghi accessibili ai fotografi. (Cfr la scheda Hina Sanaa e le altre ) E’ questa codifica rigida che rende poi possibile trovare accettabile, a uno sguardo superficiale, un impaginato come questo de L’Espresso, nel quale parlando di un “pentito di Al Qaeda” si mostrano dei musulmani in preghiera in un palazzetto dello sport durante la festa che chiude il Ramadan.
Potremmo immaginarci al posto di quella immagine la fotografia di un gruppo di senegalesi muridi che sorridono nelle spiagge accanto a donne in bikini e a un mare blu? O quella di commercianti, operai o imprenditori egiziani in posa davanti all’insegna della loro azienda? O quella degli “schiavi” che raccolgono i pomodori? O ancora quella di un laureato marocchino (ma ormai italiano) per il quale la Lega Nord ha chiesto il Sigillo Civico?
Comunque la si voglia vedere, è certo che le immagini, nella loro articolazione con le categorie giornalistiche e le parole-chiave su cui si reggono le scelte visive, producono mondi immaginari duraturi e difficili da erodere, a partire dai quali si formano molte opinioni e vengono confermati molti pregiudizi.
1Per questioni legate alla concessione dei diritti Rai, siamo in attesa di poter pubblicare il video, ndr