di Andrea Pogliano
L’ “islamizzazione” delle rappresentazioni del mondo arabo-musulmano in Italia. Nel report “Le rappresentazioni fotogiornalistiche dell’immigrazione nel Mediterraneo sulla stampa periodica italiana” facevo notare come fosse in atto nel giornalismo un processo di “islamizzazione” delle rappresentazioni del mondo arabo-musulmano in Italia. Questo processo riguardava innanzitutto la drastica riduzione avvenuta nel corso degli anni del numero di servizi e di pagine che includevano (anche in fotografia) i migranti dell’area arabo-musulmana, trattandoli non solamente come “islamici”. In pratica, se i migranti provenienti dal mondo arabo-musulmano venivano definiti come musulmani, allora il tema del servizio era certamente l’Islam e il testo verteva sul “problema Islam” come cultura incompatibile con la democrazia, oppure sul terrorismo islamico. Parallelamente al processo di “islamizzazione” delle rappresentazioni del mondo arabo- musulmano in Italia, si assisteva a un processo di riduzione ad icona di questo immaginario.
Con questa espressione intendiamo una progressiva riduzione della complessità e della polisemia delle immagini pubblicate, ma intendiamo al contempo una riduzione dei temi ai quali le immagini finiscono per riferirsi o, detta altrimenti, dei ruoli interpretati dai soggetti delle fotografie. Guardando alle immagini che raccontano le storie degli immigrati dal Maghreb assistiamo infatti alla rapida sparizione di tutte quelle che mostrano la quotidianità domestica, ludica o lavorativa. Si tratta di fotografie che, pur essendo prima presenti in numero relativamente ridotto, avevano nondimeno disegnato un immaginario dell’immigrazione prima di qualunque immaginario di tipo politico o religioso. È precisamente l’arabo-musulmano come migrante a sparire di scena.
L’ “islamizzazione” delle rappresentazioni dei migranti del mondo arabo-musulmano coincide con il riproporsi di fotografie altamente stereotipate tratte quasi esclusivamente da alcuni luoghi-simbolo di Milano e Roma (piazza del Duomo in primis) o da luoghi, sempre di queste metropoli, che hanno raggiunto la cronaca nazionale (su tutti, viale Jenner a Milano, dove si sono concentrati a lungo i sospetti di infiltrazioni terroristiche tra i fedeli della “moschea-capannone”) …
Le icone del mondo arabo-musulmano in Italia ad essersi affermate nel tempo sono in numero estremamente ridotto e si esauriscono nell’elenco che segue: il musulmano in preghiera e poi le grandi masse riunite in strada per la preghiera del venerdì e nei palazzetti dello sport o nelle piazze per quella di fine Ramadan, dalla loro prima isolata apparizione nel 1991 fino ad oggi; gli imam, separati nettamente in “fondamentalisti” e “moderati”; le donne e le ragazzine col velo, molto presenti nell’ultimo decennio, prestate al doppio discorso del dialogo interreligioso e della minaccia culturale a seconda dell’orientamento della testata. Un altro argomento riguarda la forte presenza di “fantasmi”. Con questa espressione intendiamo la presenza di icone “fuori contesto” arbitrariamente inserite accanto a immagini dell’Islam in Italia. Si crea in questo modo un rapporto di sovrapposizioni tra realtà locali e immaginari globali, tra un tema e un altro, come quella tra le presenze di immigrati arabi musulmani in Italia e il terrorismo di Al Qaeda, con le presenze-fantasma di Bin Laden o di altri noti terroristi della scena intenazionale, o come quella tra la scuola italiana e la questione della condizione della donna nel mondo arabo, con presenze-fantasma di donne che sfoggiano veli molto coprenti in zone lontane del mondo, come Pakistan e Afghanistan.
Nell’articolo intitolato “Migranti musulmani e prostitute straniere. Il giornalismo tra umanitario e securitario”, pubblicato su “Educazione Interculturale” tornavo sull’argomento, approfondendo due questioni. La prima questione era quella della divisione artefatta e radicale tra musulmani integralisti e musulmani moderati e della costruzione anche iconografica di questa divisione. La seconda questione riguardava invece la “questione del velo” e la sua costruzione giornalistica (anche) attraverso la fotografia. Sul primo punto scrivevo:
È in casi traumatici come quelli degli attentati terroristici a Londra, a Madrid e a New York, ma anche in casi di tutt’altra natura, come le querelle sulle costruzioni di moschee che puntualmente animano il dibattito pubblico italiano, che il giornalismo ricorre ai commenti da parte di soggetti che vengono convocati in qualità di “musulmani moderati”. Attraverso il meccanismo fittizio della rappresentanza, i media rafforzano il processo di costrizione di una realtà altamente sfaccettata all’interno del significato preferenziale di “mondo musulmano”. È qui che assume senso la dicotomia moderati-fondamentalisti. Sebbene la figura del “moderato” nasca in queste circostanze e asservisca il bisogno dei media di semplificare la realtà durante la copertura di eventi problematici, queste figure assumono una “vita propria”. Ad esempio su Sette del 23 settembre 2004 troviamo in copertina il ritratto di un uomo, fotografato in posa davanti a una copia del Corano aperta su un leggio. L’occhiello di copertina è “Il moderato Feras Jabareen”. Il titolo: “L’imam italiano”. Si tratta di un italiano convertito e ora imam della moschea di Colle di Val D’Elsa, un comune toscano che conta circa 20 mila abitanti. La sua presenza in copertina, considerata la scarsissima presenza di musulmani sulle copertine dei settimanali italiani, rende significativo il caso e al contempo mette in luce il meccanismo di costruzione giornalistica degli stereotipi. Partendo da una storia assai particolare, il servizio offre un’icona del “musulmano moderato” da contrapporre a quelle ben più visibili dei fondamentalisti reali o potenziali. E la costruisce in forma chiaramente oppositiva, restituendo il volto (e lo sguardo) che viene abitualmente negato in immagine agli altri musulmani. Ma l’operazione va ben al di là della produzione iconica. Il titolo di apertura del servizio è “Una giornata con l’imam moderato” (non con un imam moderato) e il sommario presenta alcuni attributi dell’uomo: “Studia il Corano in auto. Fa shiatsu e fisioterapia (anche) alle donne” […] E ha un cruccio: una moglie troppo religiosa” (Sette, 2004, p. 11). La volontà di rendere esemplificativa questa storia è ben esplicitata nel servizio. Magdi Allam tratta Jabareen come un “emblema” del moderatismo per via della sua opposizione al terrorismo. Se Jabareen è emblematico di ciò che non è un fondamentalista, allora vale la pena leggere seriamente il sommario dell’articolo appena proposto per leggere gli attributi dei moderati. Una lettura critica di quelle parole non può non evidenziare i tropi del modernismo vs. l’antimodernismo (Jabareen “studia il Corano in auto”), del rapporto con il mondo femminile e con il corpo delle donne che porta all’opposizione libertà/costrizione (Jabareen “fa shiatsu alle donne”) e del rapporto tra la quotidianità e i dettami della fede (Jabareen ha il cruccio di una moglie troppo religiosa). In questo come in altri casi, il giornalismo propone come “moderato” il musulmano che risponde ad alcuni stereotipi occidentali dell’occidentale o, detto altrimenti, il “musulmano italianizzato”. Più in generale, esso presenta una visione buona dell’Islam a condizione che sia guidato da una figura di “musulmano italianizzato” o addirittura italiano, come nel servizio di Sette, la cui fotografia di apertura propone tutti i tratti di questo alter nero guidato (contenuto?) da un ego bianco.
Sul secondo punto invece scrivevo questo:
Il dibattito politico sul velo portato da migranti musulmane ha origine in Francia e si è sviluppato intre tappe: l’affaire del 1989, la legge del 2004 che proibiva di indossare simboli religiosi a scuola e,ultimo, il divieto dell’uso pubblico di niqab e burqa nel 2010. Nonostante il tema esplicito fosse quello della laicità dello stato, la questione del velo era inscritta anche in un frame umanitario. Il supporto di molto femminismo occidentale alle “proposte anti-velo” ha poi alimentato un clima d’opinione che porta a vedere nel velo il simbolo della violenza maschile nei confronti delle donne. La battaglia culturale contro niqab e burqa sarebbe altrimenti poco comprensibile, considerando che questi indumenti si stima fossero indossati, nel 2010, dallo 0,13% della popolazione musulmana residente in Francia (dati del French Internal Security Service Study, citati dall’Indipendent (Lichfield J., “France moves to outlaw the burqa and niqab citing égalité”, The Indipendent, 8 gennaio 2010.)
La querelle sul velo si è rapidamente spostata dalla Francia ad altri Paesi europei. L’assenza di burqa dal panorama visivo italiano è stato persino superato attraverso una produzione giornalistica che ha messo in scena del tutto autonomamente la “donna afghana”. Così, su Sette del 16 giugno 2005, la giornalista Luisa Pronzato si è aggirata per Milano indossando il burqa, per sondare le reazioni delle persone.
In altri casi il giornalismo è ricorso a fotografie d’archivio di donne col niqab provenienti da Paesi lontani e le ha usate per parlare dei musulmani presenti in Italia. È nota la tendenza a sostenere gli stereotipi visivi, ad esempio non accettando di proporre in video donne musulmane senza il velo nella produzione televisiva di notizie sull’Islam (Allievi, 2003, p. 254). La necessità di rappresentare donne musulmane con il velo, a costo di inventarne, e il desiderio di vederle “svelate” è una di quelle tensioni che mostrano lo stretto legame tra ideologia e produzione di notizie. Nella retorica semplificata e altamente simbolica di molto giornalismo, togliere il velo è un gesto che significa di per sé liberazione e – nei casi di migrazione – integrazione nei Paesi d’arrivo. Paradossalmente però le donne che hanno tolto il velo non vengono mostrate per parlare di Islam, a meno che il fatto di averlo tolto non le trasformi nuovamente in vittime. La grande attenzione del giornalismo verso i casi di violenza domestica che riguardano migranti musulmani va certamente inscritta nel bisogno di riprodurre lo stereotipo. Al di là dei numeri (le violenze nelle famiglie di non immigrati sono molto più numerose), ciò che viene enfatizzato nell’analisi critica di queste notizie (Reimers, 2007; Morey, Yaqin, 2011, pp. 71-77) è l’ossessione per un frame, quello del delitto d’onore, a scapito di altri frame invece quasi sempre impiegati per raccontare analoghe storie che riguardano non immigrati (ad esempio, quello del delitto passionale). Questi racconti, molto simili tra loro, propongono lo scontro frontale tra il desiderio di libertà e di integrazione delle donne immigrate (il fatto che “vestivano all’occidentale”, ossia il fatto che avevano tolto il velo, è enfatizzato nei titoli e presentato talvolta come unica causa della violenza) e l’ottuso attaccamento alle tradizioni e a un codice d’onore da parte degli uomini, che ripropone e enfatizza lo stereotipo dell’Islam come cultura barbarica e statica.
L’ “appiattimento” del musulmano. Ho ripreso qui questi lavori perché offrono il contesto dal quale intendo partire per trattare le rappresentazioni giornalistiche di alcuni casi di cronaca che hanno subito una straordinaria mediatizzazione. Riassumendo il quadro di contesto, gli aspetti più significativi sono due. Il primo riguarda l’appiattimento della figura del musulmano immigrato sull’immaginario dei fondamentalisti o integralisti islamici, la cui rappresentazione iconografica è offerta dalla massa di maschi in preghiera e dalle donne col niqab o col burqa. Il secondo mostra che l’alternativa che viene più spesso presentata all’immagine del musulmano integralista passa per l’italianizzazione o l’occidentalizzazione del musulmano. Questa figura del “musulmano occidentalizzato” è esemplificata dai cosiddetti moderati, dove il moderatismo è proprio raccontato e mostrato attraverso delle persone italiane o attraverso storie di donne che dimettono il velo. Inoltre, quando i migranti provenienti da nazioni a maggioranza musulmana sono mostrati e raccontati fuori dai servizi che parlano di Islam, non sono mai presenti dei riferimenti alla religione. In pratica, il migrante di cultura musulmana, se non è fondamentalista o “occidentalizzato” è altro. Può essere un “vu cumprà”, un giovane di seconda generazione, un operaio, o altro ancora, ma la religione non entra nel discorso (si veda La storia di Rachid). Così, il discorso sui musulmani è ridotto alla questione integralisti vs. moderati e velo “radicale” vs. donne che “rifiutano il velo”, che per come viene trattata si riduce ulteriormente alla opposizione tra chi non sarà mai come “noi” e chi vuole essere o è già uguale a “noi”. Questa polarizzazione offre la cornice di senso per interpretare le storie di cui si riempiono le cronache e porta a enfatizzare le storie che riflettono questa cornice (frame).