L’omicidio di Sanaa Dafani

L’affermazione definitiva del template “Hina Saleem”

di Andrea Pogliano

L’ombra di Hina. La sera del 15 settembre 2009, vicino a Pordenone, viene uccisa dal padre una ragazza immigrata di origine marocchine: Sanaa Dafani. La Stampa dà la notizia il giorno stesso (giornale del 16), con il titolo: “Marocchina di 18 anni sgozzata dal padre: amava un italiano”. Il motivo del delitto, che ovviamente non è ancora noto a nessuno, è già lì, suggerito nel titolo come una questione inter- etnica. Il sottotitolo dà però ad intendere che la questione, più che altro, è legata alla religione (“Avrebbe ucciso per motivi religiosi”). Il condizionale, in questo caso, è una tutela giornalistica rispetto a un’interpretazione quanto meno prematura ed eticamente molto scorretta. L’articolo è sostenuto da due immagini: una dovuta, di cronaca; l’altra – inserita in un riquadro dal titolo “Il precedente” – è invece un ritratto di Hina Saleem. Nel testo che accompagna la foto si legge questa frase: “la ragazza era colpevole di voler vivere troppo da occidentale”. L’articolo de La Stampa termina così: “Ora chiariranno il quadro gli interrogatori, del padre e del fidanzato. Ma l’ombra di Hina, la ragazza-simbolo del diritto all’emancipazione, è già calato su quest’ennesima storia di crudeltà. E d’ignoranza”.

La Stampa settembre 2009
La Stampa settembre 2009

E’ del tutto evidente che l’ombra di Hina è innanzitutto calata nella testa della giornalista autrice dell’articolo, ma la forma scelta dà per scontato che l’ombra sia visibile a tutti, indipendentemente dalla chiave di lettura preferenziale adottata. La chiave di lettura viene trattata come se fosse ovvia, evocando implicitamente un pubblico immaginario che l’avrebbe già adottata. Il cocktail di motivazioni dell’omicidio che la giornalista propone in questo articolo è piuttosto caotico. Ne rintracciamo almeno otto, alcune delle quali in parte sovrapponibili:

a) interetniche: l’Italia vs. Marocco del titolo;
b) interreligiose (musulmana vs. cattolico)
c) l’ignoranza (del padre);
d) la crudeltà (del padre);
e) la differenza di età tra Sanaa e il suo fidanzato (lei aveva 18 anni, lui 31);
f) la situazione, ovvero la scelta di andare a convivere;
g) il tentativo di emancipazione di Sanaa: sta qui il senso della “citazione” del caso HinaSaleem, almeno stando a quanto scritto (“ragazza-simbolo del diritto all’emancipazione”)
h) l’occidentalizzazione di Sanaa: qui l’altro senso della citazione (“La ragazza era colpevole di voler vivere troppo da Occidentale”).

Le cause possibili. Troviamo anche un tentativo di sintesi e di riduzione delle cause possibili: “Le ipotesi del movente si reggono su quella convivenza che lui [il padre] disapprovava. Troppe le differenze. L’età, certo.
E poi la religione, con quella figlia musulmana colpevole di convivere, per di più con un cattolico”. Questa sintesi ne taglierebbe fuori alcune e si concentrerebbe su degli aspetti della relazione: la scelta della convivenza, la differenza d’età e quella di religione. Delle tre è piuttosto evidente quale viene enfatizzata nell’articolo: basta vedere la gerarchia testuale, a partire da quel che si trova scritto nel titolo e nel sommario. E’ però proprio l’insieme delle altre possibili motivazioni che vengono citate senza essere analizzate e senza che gli venga data priorità a costruire il frame, segnandone la possibile estensione. Il 16 Settembre, la storia dell’omicidio di Sanaa Dafani è su tutti i telegiornali. Il Tg1 delle 20 presenta due servizi in serie. I titoli sono i seguenti:

a) “Ama un italiano, il padre musulmano la uccide”, dove l’amore in sé (non la scelta di convivere, la differenza di età o altre questioni possibili) è presentato nel titolo come il movente di un omicidio, e dove l’appartenenza religiosa (il musulmano) fa da specchio a quella nazionale (l’italiano), convalidando il senso di una confusione funzionale.
b) “Sanaa come Hina, tragiche analogie”, dove il template viene istituzionalizzato e proposto come elemento imprescindibile per comprendere il senso dell’omicidio di Sanaa Dafani.

Il primo servizio parte come un normale servizio di cronaca. Inizia con un testimone che racconta cosa ha visto, accompagnato da immagini notturne di rilievi dei carabinieri. Ma subito subentrano alcuni interessanti elementi, come l’uso della fotografia per raccontare le due parti. Le immagini di Sanaa usate per raccontare la sua storia sono tratte dalla pagina Facebook della ragazza e la ritraggono in momenti intimi. In particolare la fotografia più usata anche altrove, da giornali e telegiornali, è un ritratto di Sanaa, sorridente e sdraiata sul letto, mentre stringe un cuscino bianco che sembra un peluche. Il servizio contiene una breve intervista a Luigi Delpino, procuratore della Repubblica. Delpino risponde a questa domanda del giornalista: “Differenza d’età, ma ancor più di religione forse?”. La replica: “Ma, guardi, sui motivi, ripeto, non credo che sia possibile dire è questo o è quello. Ci sono stati contrasti tra il padre e la figlia ma su quali siano i veri motivi per ora non è che possiamo darli per scontati”.Questo contrasto tra ciò che sospetta il giornalista e i dubbi del procuratore su ciò che il giornalista sospetta è di fatto virato a favore di terzi: di ciò che fanno sfoggio di sapere con certezza i giornalisti al desk che, di fatto, impacchettano il servizio. Il titolo in sovrimpressione che accompagna il servizio è infatti – lo ricordiamo: “Ama un italiano, il padre musulmano la uccide”, dove non pare c’entri nulla l’età e non è nemmeno chiaro se c’entri la religione o piuttosto – a prenderla così com’è scritta – una specifica avversione dei musulmani per gli italiani.

La vaghezza, dicevamo, è centrale alla costruzione del frame perché permette svariate soluzioni sotto la medesima cornice generale di senso, di fatto legittimando tutti quegli aspetti che vengono tenuti connessi come parte di un discorso che ha la pretesa della coerenza. Così, quando parla del fidanzato di Sanaa Dafani, il giornalista lo presenta in questi termini: “Italiano, cattolico, di 31 anni” (nazionalità, religione, età). Infine, il servizio si chiude con una finestra su quello seguente: “Era lei a dover morire, sgozzata come Hina, la giovane pakistana trucidata nel 2006 a Brescia dai maschi della famiglia. Lei a dover pagare per una relazione con un uomo che a lei, cresciuta in Italia, appariva normale. Intollerabile, invece – lo racconta la ferocia di questo omicidio – per il padre”. Oltre ad aprire al servizio successivo, questo finale introduce – anche nel caso dell’omicidio di Sanna Dafani – la distinzione tra una prima generazione nata e cresciuta, almeno in parte, altrove e una seconda generazione (anche se Sanaa Dafani non era – a rigore – un membro della seconda generazione, così come non lo era Hina Saleem) cresciuta in Italia. Questa distinzione tra due generazioni dell’immigrazione non viene introdotta come uno dei possibili terreni di divergenza tra il padre e la figlia, ma – e questa volta senza condizionali – direttamente come concausa dell’omicidio. E’ qui che la connessione con gli altri temi, sopra elencati e con il template di Hina Saleem prende la sua forma stabile e trova appoggio nei due immaginari divergenti degli immigrati da una parte e delle seconde generazioni (gli altri, o gli italiani) dall’altra parte.

Il piano intergenerazionale. Il secondo servizio si apre con le immagini del video digitale di Hina Saleem e con queste parole pronunciate dalla giornalista: “Non voleva indossare il velo, non voleva un matrimonio combinato con il cugino; voleva vivere con il fidanzato italiano che amava. E’ l’11 agosto del 2006, dopo una riunione dei maschi di famiglia, Hina, ragazza italiana figlia di immigrati pakistani, viene uccisa con 20 coltellate. Sgozzata proprio da suo padre” (corsivo nostro). E qui le immagini del video digitale lasciano il posto a una fotografia del padre di Hina Saleem, sconvolto e di profilo, durante il processo che lo vede imputato. Poi la giornalista, nel riproporre l’analogia, ci consegna una generalizzazione: “Due casi estremi, Hina e Sanaa, che suscitano clamore, ma che sono simili in Italia e in tutta Europa a molte altre storie meno note. Segnali di un disagio diffuso ma sommerso di cui non si conoscono ancora i confini”. A questo punto del servizio viene intervistata Souad Sbai, donna di origini marocchine, cittadina italiana, laureata in Italia, ex parlamentare del PDL e attualmente opinionista di Libero, nonché presidente dell’Associazione delle donne marocchine in Italia. La giornalista le chiede:
“Quanto c’entra la religione e quanto c’entra uno scontro culturale all’interno delle stesse famiglie?”.
Si noti che qui la domanda sull’età, fatta al procuratore nel servizio precedente è sparita, così come i possibili moventi di altra natura e la sfumatura vaga e ambigua (scontro culturale o religioso?) non lascia spazio a nulla che stia fuori dal frame.
Sbai risponde riportando lo scontro sul piano intergenerazionale e lanciando l’ennesima “emergenza” sul tema immigrazione:

“C’è una seconda generazione che ha oggi 16, 17 anni: questi problemi ne avremo tanti altri nel futuro”.(dal Tg1 delle 20 del 16 settembre 2009)


A questo punto diventano centrali le immagini. Lo stacco è su una ragazza col velo che cammina per strada, tenendo per mano il figlio, poi vediamo un’altra donna col velo che cammina per strada, di spalle e via via assistiamo a un crescendo di immagini usate senza alcun riferimento al contesto, immagini di repertorio di donne col velo di spalle o di tre quarti, fino ad arrivare ai veli più coprenti e poi infine ai niqab, che cancella il volto delle “generiche donne musulmane di prima generazione” qui esposte in sequenza. Nel frattempo, le parole evocano due fatti di cronaca, anch’essi uno del 2006 e uno del 2009, come quelli di Hina Saleem e di Sanaa Dafani: “Febbraio 2006, Bolzano. Arrestato un egiziano per aver provocato fratture e lesioni alla figlia 16enne che frequentava un compagno di scuola italiano. Febbraio 2009, Ravenna: a processo coppia di algerini per aver minacciato di morte e picchiato la figlia di 14 anni che si rifiutava di abbandonare gli studi per crescere i suoi 5 fratelli”. Le parole che chiudono il servizio, pronunciate dalla giornalista, fissano il frame sostenuto dalle immagini:

“Queste ragazze si sono salvate perché hanno denunciato, dimostrando di essere più integrate dei loro genitori, che spesso sono immigrati di prima generazione non inseriti e per questo sempre più chiusi in fondamentalismi religiosi di cui le donne sono vittime passive”.
(dal Tg1 delle 20 del 16 settembre 2009)

 

Va notato come il “non inseriti” vada insieme alle prime generazioni (non viene detto: “sono immigrati di prima generazione spesso non inseriti”, ma “spesso sono immigrati di prima generazione non inseriti”.
La scelta dell’avverbio non si capisce su che basi si regga. Il nesso causale tra “gli immigrati di prima generazione non inseriti” e la chiusura nei fondamentalismi religiosi è una generalizzazione senza fondamento (anche perché si regge sulla vaghezza di cosa significhi essere inseriti: ad esempio il padre di Sanaa Dafani lavorava ed era un lavoratore stimato dai suoi datori di lavoro). L’uso di “sempre più” è ridicola (è una sensazione di chi scrive?), ma è funzionale a lanciare l’ennesimo “allarme immigrazione”. Ed eccoci così approdati in un lampo dall’avere un fatto di cronaca nera i cui motivi sono ancora – nella realtà – tutti da chiarire, a un discorso sui fondamentalismi religiosi, sulla passività delle donne musulmane di prima generazione, sulle difficoltà di integrarsi degli immigrati e su un emergente scontro culturale dai confini ancora non chiari ma minacciosamente in crescita e potenzialmente esplosivo.

La visione culturalista della violenza domestica. Sempre il 16 settembre, il Tg 2 delle 20,30 di servizi legati a questo caso ne presenta tre. Il primo si intitola “Sanaa uccisa per la sua relazione con un italiano”. Il titolo anche qui propone una tesi netta in contrapposizione alla cautela del Procuratore Delpino, che qui peraltro sostiene che quel poco che sanno dai vicini è che li sentivano litigare intorno all’eccessivo scarto di età dei due innamorati.
Il comandante dei carabinieri, Pierluigi Grosseto, alla domanda sui possibili motivi religiosi, risponde: “Non lo so, diciamo che in famiglia non era ben vista la relazione in quanto lei era ritenuta troppo giovane per potersi allontanare da casa ed andare a convivere con un’altra persona”. Se il primo servizio vede quindi i giornalisti impegnati a fare la domanda sui motivi religiosi, il secondo, intitolato “Omicidio Sanaa. Le reazioni a Montereale Valcellina” vede invece i giornalisti stuzzicare residenti e sindaco con domande che girano intorno all’integrazione degli immigrati (un ulteriore salto logico, e non da poco). Il sindaco si ritrova nel difficile compito di scansare le tesi contenute nelle domande, portando all’attenzione il caso famigliare specifico e spedendo al mittente la questione “integrazione”. Il terzo servizio porta al suo picco il livello della generalizzazione e della vaghezza del referente (di chi stiamo parlando?), istituzionalizzandolo e dando sfogo allo scontro politico. Intitolato “Carfagna: il Governo sarà parte civile nell’omicidio Sanaa”, il servizio si apre con Mara Carfagna – sullo sfondo bandiera italiana e europea e ritratto del Presidente della Repubblica – che dice:

“L’uccisione della giovane ragazza marocchina è un episodio di una violenza e di una gravità inaudita. Dimostra che nel nostro paese ci sono ancora sacche di immigrazione che non rispettano i nostri principi, i nostri valori e le nostre leggi. E’ un colpo mortale inferto ai diritti umani delle donne”. (dal tg2 del 16 settembre 2009 delle 20.30)

 

Il servizio prosegue col parallelo – tracciato dal giornalista – tra il caso Sanaa Dafani e il caso Hina Saleem, “uccisa nel 2006 dal padre perché conviveva con un italiano cristiano” (corsivo nostro) e prosegue con un’intervista a Daniela Santanché che dice: “Un padre che uccide la figlia per motivi religiosi. E questo è il concetto che hanno dell’integrazione. Domenica noi saremo al Vigorelli, dove c’è la chiusura del Ramadan e non consentiremo a nessuna donna di entrare col burqa”. Il burqa – che nulla c’entra con il fatto di cronaca in discussione – entra qui come un fortissimo dispositivo di frame, in grado di sganciare il femminicidio immigrato da quello autoctono, separando i campi in maniera simbolicamente chiara e proponendo una visione radicalmente (è il caso di usare proprio questa espressione) culturalista della violenza domestica.
Ha un compito impossibile Mario Scialoja, segretario della comunità islamica del centro Italia, il cui intervento chiude il servizio in un’ottica di bilanciamento. Il suo tentativo di separare la violenza famigliare in una famiglia specifica dal “generico” Islam, che va dal Pakistan al Marocco senza riguardo di alcuna sfumatura, non ha dietro la robusta e trasversale costruzione giornalistica di un frame, a differenza delle parole della Santanché, che di quel frame sono l’estremizzazione, ma che in quel frame si inseriscono a pieno titolo.

L’icona di Sanaa. Il giorno dopo, 17 settembre, la storia dell’omicidio guadagna la prima pagina sia su La Stampa che su La Repubblica, che offrono due versioni grafiche fotocopia: stessa scelta della fotografia, stessa collocazione in pagina.

La Stampa settembre 2009
La Stampa 17 settembre 2009
Repubblica settembre 2009
Repubblica settembre 2009

L’icona di Sanaa è perfetta per il frame e complementare alle immagini di Hina. Meno provocatorio (l’emancipazione di Hina si accompagnava all’uso disinvolto del suo corpo e un atteggiamento di sfida), il corpo-simbolo di Sanaa è più docile, sorridente, vulnerabile e trasognato. Come vediamo nell’immagine qui sopra, sulla Stampa del 17 settembre si parla subito di “sogno spezzato”, prolungando quell’immagine di dolce risveglio nella cupa immagine che emerge dalla cronaca. Ma il sogno non è uno qualunque: è chiaramente il sogno di un amore libero con un italiano, spezzato da un “padre padrone musulmano”, in un gesto di “follia e fanatismo”. Questi due termini potrebbero essere intesi come sinonimi, ma è chiaro che il secondo allude alla religione, sebbene emerga che l’omicida non frequentava moschee e pare bevesse, tanto che su Repubblica (sempre il 17 settembre) si scrive che non era un musulmano ortodosso. Su La Stampa invece, ci si spinge – a pagina 10 – a dire che “il padre-padrone la voleva casa e moschea”.

La Stampa settembre 2009
La Stampa 17 settembre 2009

Sempre su La Stampa, il richiamo in prima pagina agli articoli interni, contiene altri aspetti interessanti. L’attacco dell’articolo è senza appello: “Uccisa perché viveva da Occidentale”. Si noti che è lo stesso claim al quale è giunto unanimemente il giornalismo sul caso Saleem e che qui viene “semplicemente trasposto” alla nuova occorrenza. L’articolo continua così: “Sanaa Dafani voleva appartenere al mondo nel quale si trovava a suo agio. Lavorava nel Nord-Est e amava un italiano di 13 anni più grande di lei, contro la volontà del padre musulmano”. Qui si propone il tema della differenza radicale tra due mondi, e nuovamente la questione è ambigua, ma è indubbio che la scelta di aggiungere “musulmano” e di non troncare la frase su “padre” tende a definire i mondi non tanto o non solo in termini intergenerazionali ma soprattutto in termini religiosi. Per fare questo però è necessario pensare Sanaa come non-musulmana, sebbene – in astratto – non ci siano motivi per dire che lo fosse meno del padre. Anche lei nata in Marocco da una famiglia marocchina di “cultura musulmana”. E d’altronde, specularmene, anche il padre – come viene scritto della figlia – “lavorava nel Nord-Est”.

Il processo di de-islamizzazione di Sanaa Dafani passa così, inevitabilmente, per quell’amore con un italiano. O meglio, quell’amore con un italiano viene letto come la scelta dell’Italia contro il Marocco, dell’Occidente contro l’Oriente. Il tutto insomma è presentato in modo polarizzato e dicotomico, come un aut aut. Al contempo Italia, Occidente (anche il Marocco è a occidente, en passant) e cristianità, creano un gruppo semantico unitario da contrapporre a Marocco-Oriente-islam. Nel frame, italiano, cristiano e occidentale funzionano di fatto come sinonimi, rafforzando un immaginario che si regge su codici di contrapposizione assai precari ad un’analisi approfondita ma che vengono continuamente rilanciati come parte di un discorso coerente. Di nuovo: è questa vaghezza la forza del frame nel dare forma all’immaginario dello scontro. L’altro articolo richiamato in prima,sempre sulla Stampa, inserito nello stesso richiamo all’omicidio Dafani, riguarda Hina Saleem. Troviamo scritto: “La madre di Hina: Perdono mio marito. Capisco perché ha ucciso nostra figlia”. C’è quindi subito uno scatto in avanti, dall”ombra di Hina” del giornale del giorno prima all’insinuazione di una diversità morale radicale e chiaramente culturalizzata (sebbene la “notizia” sia vecchia di tre anni). Così, la dichiarazione di una donna di origini pachistane che elabora il suo personale lutto famigliare (sicuramente, peraltro, non con una sola frase) diventa uno slogan, ossia un potente dispositivo di frame che vale per giudicare lo sfondo culturale e psicologico su cui si muoverebbe il delitto recentissimo di una ragazza ad opera di un padre di origini marocchine. Le tre fotografie scelte per raccontare questa vicenda rendono ancora una volta il contrasto visivo che lavora come codice binario nel sostenere la radicale differenza tra i due mondi (quello di Hina e, con lei, delle seconde generazioni e quello dei genitori di Hina e, con loro, delle prime generazioni dell’immigrazione).

Schermata 2015-05-10 alle 12.46.07
La Stampa 18 settembre 2009

Repubblica invece presenta il padre come “immigrato marocchino” e sostiene che Sanaa è stata uccisa perché “colpevole di convivere con un italiano”. I due articoli anticipati in prima pagina titolano “Il padre padrone” e “La rivolta delle figlie”. Il secondo richiama la storia dell’omicidio di Hina Saleem, “uccisa – si legge – per lavare l’onta che con la sua condotta, uno stile di vita occidentale e una relazione con un giovane italiano, gettava sulla famiglia”. Il primo vede il sociologo Renzo Guolo affermare con nettezza che le motivazioni dell’omicidio stanno nel fatto che il padre era “contrario a una convivenza con un italiano, uomo di diversa religione” e che si tratta di “una morte sacrificale, mirata, illusoriamente, a ripristinare quell’onore [perduto dal padre] di fronte alla rete parentale e alla comunità”.
Sia nel caso di Sanaa che in quello di Hina, dalle sentenze emergeranno però dei quadri diversi, in cui il motivo del “delitto d’onore” così come la più generica motivazione religiosa non trovano spazio.
Due giorni dopo, lo stesso destino senza redenzione capitato alla madre di Hina Saleem sembra toccare la madre di Sanaa Dafani. Su Il Giornale del 19 settembre si legge infatti che anche la madre di Sanaa – che in un primo tempo aveva fermamente condannato il marito (come quella di Hina d’altronde) – ha offerto il suo perdono e ha addossato le colpe della tragedia sulla figlia. Il giornalismo va a caccia dell’ “l’anima nera” dietro questa piroetta e lo trova nella figura dell’imam.

Il Giornale settembre 2009
Il Giornale settembre 2009
Repubblica settembre 2009
Repubblica 18 settembre 2009

Di generalizzazione in generalizzazione. Siamo al 22 settembre e questa tesi diventa uno dei pilastri intorno ai quali muove la puntata di Porta a Porta su Rai Uno, trasmissione che consacra l’analogia tra il caso Saleem e il caso Dafani, spingendo la tesi, di generalizzazione in generalizzazione, fino ad arrivare a discutere della (im)possibilità dell’Islam di adattarsi alla democrazia e della (im)possibilità dei musulmani di prima generazione di integrarsi nelle nostre società. La madre di Sanaa, in collegamento con lo studio, circondata da parenti e amici e affiancata dall’imam che ne traduce le parole dall’arabo all’italiano, vive una continua messa in dubbio delle sue affermazioni e dei sentimenti che esprime (di condanna del marito ma di difficoltà a accettare i desideri della figlia). Ciò che dice non viene creduto o viene re-interpretato come parole che le hanno detto di dire. Si raggiunge il picco di questa tesi complottista nel momento in cui Suad Sbai – in studio insieme a Mara Carfagna, Magdi Allam, Livia Turco e Fouad Kaled Allam – si alza in piedi accusando il religioso di non tradurre esattamente le parole della donna per un suo preciso disegno. Invece, quando ciò che la madre di Sanaa dice contrasta esplicitamente con il frame ormai diffuso e intorno a cui tutta la trasmissione è organizzata – si passa oltre, come se le parole non fossero state dette e si ripresenta il frame originario come se nulla fosse accaduto. Questo si vede in tutta evidenza quando lei dice che la religione e la nazionalità non c’entrano, che sarebbe stato uguale se il fidanzato fosse stato un musulmano, perché il problema era la fuga da casa, diciottenne e la continua disobbedienza. La trasmissione contiene anche una visione di cosa sia l’integrazione.
Nello specifico Bruno Vespa dice:

“Probabilmente le altre figlie [le sorelle di Sanaa], con quello che è successo, se ne staranno tranquille”

Mara Carfagna raccoglie così:

E quella è la cosa ancora più grave: frenando un’integrazione di cui abbiamo fortemente bisogno”.

 

Si dà quindi per scontato che anche le sorelle di Sanaa desiderino emanciparsi e che da quel passaggio derivi l’integrazione. Ma il punto sempre sottaciuto è sul come.

Cosa significa emanciparsi? Togliere il velo? Andare a convivere giovanissimi, cosa che peraltro tanti genitori italiani non permetterebbero alle loro figlie di fare? Entrare in relazione con un italiano? Tutti questi elementi che fanno parte del frame non sono esplicitati, ma una volta che il frame è richiamato, non si vede cos’altro debba venire in mente pensando all’integrazione che su quella base viene evocata.
Quando Bruno Vespa chiede a Giuseppe Tempini, fidanzato di Hina Saleem all’epoca dell’omocidio, perché il padre la uccise, lui risponde:

“Perché non voleva fare integrare sua figlia nella nostra comunità. Non voleva farle fare una vita che fanno tutte le nostre ragazze”.

E aggiunge:

“Non credo tanto a quello che dice sua madre, perché sono sempre comandate da altra gente”.


Poi Vespa si rivolge all’avvocatessa di Tempini e le chiede:

“Avvocato, anche lei ha la sensazione che queste persone non siano persone libere?”

E l’avvocato, come se il suo mestiere fosse lo psicologo sociale, senza alcuna esitazione dice:

“Assolutamente no. Non so se ricorda, Vespa, quando accadde l’omicidio. Lei in maniera molto disponibile ci aveva invitato in trasmissione e commentammo l’atteggiamento della madre di Hina che era quello di…da una parte condannare il marito e dall’altra giustificarne il gesto. In maniera identica sta succedendo questo nuovo fatto. In tre anni non è cambiato nulla. Questa gente non vuole integrarsi, vuole imporre le loro leggi e basta”.

 

Si noti la naturalezza della generalizzazione, da due casi specifici a “queste persone”, “questa gente” (i musulmani? Pachistani e marocchini? Gli immigrati?) e a “non è cambiato nulla” (nel bresciano e in Friuli? In Italia? Nel mondo?). E poi il richiamo alle “loro leggi”. Come se in Marocco un padre che uccide una figlia non finisse in carcere. Infine, Bruno Vespa lancia il servizio su un imprenditore egiziano sposato, a Venezia, con una donna italiana. Questa storia viene presentata a contrasto, con le parole “uno perfettamente integrato in Italia”. Qui si chiarisce per l’ennesima volta qual è l’idea dell’integrazione che fa da sfondo. Non può mancare poi, in chiusura, una discussione sul burqa, con tanto di immagini provenienti dall’estero ma discusse in riferimento all’Italia.

I frammenti precari. Per riassumere, la tesi che sto proponendo è che il frame che emerge dai racconti mediali di questi omicidi si regge su un insieme di frammenti precari – nessuno dei quali regge come argomento coerente e incontrovertibile – e di generalizzazioni prive di qualunque base empirica. La forza di questi argomenti frammentari e di queste generalizzazioni sta nell’essere tenuti tutti insieme e nell’essere sorretti da immagini che esasperano i codici binari, gli elementi di scontro e la costruzione della diversità radicale. Il processo di costruzione del frame è esattamente questo: la produzione e l’affermazione di un tutto coerente e unitario laddove tutto è di fatto disomogeneo e incoerente.
Van Gorp, riprendendo criticamente il concetto di meta-comunicazione elaborato da Bateson (1972) per indicare quei messaggi sulla natura dei messaggi stessi (dunque le regole che permettono di definire come va «incorniciato» il messaggio), ha definito i frame dei media come «persistenti messaggi che specificano la relazione tra gli elementi connessi in particolari storie giornalistiche e di conseguenza attribuiscono ad esse coerenza e significato, risultando piuttosto indipendenti dal singolo individuo e legati invece a motivi culturali» (Van Gorp 2005, 503). Van Gorp ha anche elaborato un’idea del processo di framing, proponendo il concetto di «pacchetto di frame» (frame package), definito come «un gruppo di dispositivi organizzati secondo una logica, che funzionano da corredo identitario di un frame. Il pacchetto di frame è composto da tre parti (…): i dispositivi di framing manifesti, i dispositivi di ragionamento manifesti o latenti, e un fenomeno culturale implicito che rivela il pacchetto nel suo complesso» (Van Gorp 2007, 64, corsivo aggiunto); da questa prospettiva il frame può quindi essere analiticamente interpretato come «una specificazione dell’idea che connette i diversi dispositivi di framing e di ragionamento in un articolo giornalistico» (Van Gorp 2005, 487). Il frame che è stato definito, richiamando i casi delle due ragazze fidanzate con italiani e uccise dai loro padri, può essere etichettato integrazione negata ed è riassunto egregiamente dalle dichiarazioni di Mara Carfagna a seguito della sentenza Dafani di primo grado, che punisce il padre di Sanaa con l’ergastolo. “Un processo come quello che si è appena concluso – disse l’allora ministro delle Pari Opportunità – dimostra che le giovani immigrate si possono fidare del nostro Paese, devono denunciare i loro aguzzini e riprendersi la libertà che qui viene loro riconosciuta. Chi ostacola l’integrazione di una giovane o un giovane immigrato non compie un reato qualunque, ma attenta ai valori della nostra democrazia”. Oltre a svilupparsi nella direzione della negazione da parte dei padri di una scelta di vita delle figlie attraverso la violenza, introducendo così il conflitto generazionale nel ragionamento, questo frame sviluppa una visione che immagina le seconde generazioni come costrette in un mondo retrogrado e violento dal quale fuggirebbero se solo avessero fiducia nella forza delle nostre istituzioni. Riduce così l’integrazione a un’avventura tutta individuale (un “viaggio dell’eroe”) e tutta interna al mondo “loro”, segnata dal coraggio – tipicamente giovanile – di “cambiare pelle”, assumendosene tutti i rischi di fronte a una comunità ostile.

L’individualizzazione della «giovane integrata» da una parte e la collettivizzazione del “padre ostile” e della «madre manipolata» dall’altra, sono tratti salienti di questa narrazione. Essi hanno molto a che fare con il racconto quotidiano dell’immigrazione sui media: un racconto che tende a de-umanizzare e a generalizzare la figura dell’immigrato come minaccia (Dal Lago 1999) e a personalizzare – ponendola come eccezione – la figura dell’immigrato integrato (vedi scheda sulla storia di Rachid).
Le immagini svolgono un ruolo cruciale in questo racconto. A cominciare dall’icona della donna col burqa, per continuare con la contrapposizione, spiegata sopra, tra le immagini tratte dai social media con le quali le ragazze in questione si autorappresentavano ai loro amici e le immagini di cronaca delle madri e di “altri musulmani e musulmane”, che radicalizzano la distanza tra “noi” e “loro”, presentandoli spesso di spalle e senza volto, dove tutto ciò che si vede sono i veli e gli abiti coprenti delle donne o l’immagine-fototessera del padre omicida, che assume il senso di foto segnaletica.

Il Giornale settembre 2009
Il Giornale settembre 2009

Ma le immagini di Hina Saleem e di Sanaa Dafani funzionano anche come media template o come memento, come illustrato da questo impaginato de il Giornale, nel quale una fotografia di Sanaa Dafani viene messa lì, tra un articolo di un “immigrato clandestino” che ha aggredito un frate a Sanremo, un altro di una rissa a Bergamo a seguito della quale un “immigrato irregolare” è stato denunciato, un altro che contiene un’intervista a Souad Sbai che replica all’estemporanea dichiarazione di una donna italiana convertita all’Islam che a “Domenica 5” aveva detto che vorrebbe in Italia dei tribunali che applichino la legge cranica per i musulmani e, infine, un articolo sul burqa, “ostacolo all’integrazione”. Si vede bene il ribaltamento. Da tanti argomenti sparsi tenuti insieme dal caso di Sanaa all’immagine di Sanaa che fa da memento (ricordati dove si può arrivare) ai tanti argomenti su immigrati violenti e manifestazioni estemporanee dell’Islam radicale in Italia.
L’icona è (as)servita.

Il Giornale settembre 2009
Il Giornale settembre 2009
il Giornale settembre 2009
il Giornale settembre 2009

 

 

Torna su