di Andrea Pogliano
Un collettivo anonimo. Diversi mesi dopo l’omicidio di Sanaa Dafani, il Tg1 delle 20,00 (18 gennaio 2010) racconta la storia di Almas, giovane pachistana portata via dal padre in auto, con la forza, mentre lei tornava da scuola per raggiungere la comunità alla quale era stata affidata dai servizi sociali. Lo fa con queste parole:
“Eccola Almas, 17 anni, pakistana, nella foto della sua pagina di Facebook. Decidiamo di mostrarla, perché qualcuno può riconoscerla e dare informazioni utili alle indagini. Rapita in pieno giorno, sotto gli occhi dei passanti, mentre tornava da scuola. …. Un padre-padrone che non accettava le sue amicizie italiane, non voleva che uscisse la sera. Così era stata affidata dal tribunale dei minori ai servizi sociali… L’ennesima storia di una famiglia difficile, di maltrattamenti, di terrore, che non può non ricordarci la triste vicenda di Hina, la giovane pakistana massacrata nel 2006 dal padre perché aveva un fidanzato italiano e uno stile di vita troppo occidentale. Gli stessi motivi che hanno portato alla morte di Sanaa…”. (dal tg1 delle 20 del 18 gennaio 2010)
Le immagini che accompagnano questo racconto sono interessanti nell’ottica che abbiamo delineato: si passa dalla fotografia-autoritratto di Almas tratta dalla sua pagina Facebook alle immagini del video digitale di Hina Saleem, alla solita immagine di Sanaa tratta da Facebook, per tornare infine alla pagina Facebook di Almas, con una carrellata sui profili degli “amici”.
Più di un anno dopo (il 4 ottobre 2010) il Tg 3 delle 19 presenta questo servizio:
tg3 delle 19 del 4 ottobre 2010
Il servizio si conclude con queste parole (per motivi legati alla concessione di diritti Rai, il video qui sopra pubblicato manca della parte finale, ndr) :
Chi può dimenticare cosa è successo a Hina nel 2006 . L’uomo che avrebbe dovuto aiutarla a crescere, a cercare la sua strada nella vita, ha interrotto per sempre il suo cammino e il suo futuro , con una violenza efferata e con l’aiuto degli altri uomini di casa. L’ha uccisa e poi l’ha sepolta nel giardino. Perché a 20 anni e con il suo amore italiano, quella ragazza, che non diventerà mai donna, aveva scelto di costruire da sola il suo destino”. (dal tg3 delle 19 del 4 ottobre 2010)
Questo servizio dà conto della messa a punto del pacchetto, che viene gonfiandosi progressivamente di casi, tutti molto diversi tra loro, ma legati dal comune frame. Il messaggio a questo punto è il pacchetto stesso, dentro il quale le nuove occorrenze rimangono affogate. Le immagini invece segnalano uno scatto in avanti, una maggior raffinatezza nel costruire le figure delle ragazze come eroi solitari e quella dei parenti e più in generale dei musulmani della prima generazione d’immigrazione come gruppi omogenei, soggetti interscambiabili, senza volto e senza pretese di soggettività: un collettivo anonimo. I gruppi di donne anonime col velo, i piedi di uomini che camminano, la massa di maschi arabi all’ingresso di una moschea, altre donne col velo, le gambe di un uomo in abiti tradizionali. Queste immagini prive di volti, alle quali si sommano le immagini di cronaca del padre di Hina che si nasconde il volto con la giacca e con il maglione davanti ai cronisti, si contrappongono ai volti delle ragazze, ai loro sguardi vivaci e ai loro larghi sorrisi: immagini che loro stesse hanno scelto di mostrare.
Il caso Jamila. A questo punto è passato più di un anno e mezzo dall’omicidio Dafani e quasi cinque dall’omicidio Saleem (è il 16 Aprile 2011) e il TG2 delle 13 presenta questo servizio che apre con queste parole e queste immagini (per motivi legati alla concessione di diritti Rai, il video qui pubblicato qui sotto manca della parte iniziale, ndr)
“La storia di Jamila – è un nome di fantasia – ha un lieto fine. La 19enne pachistana (carrellata su pagina interna di quotidiano con testatina “Scontro di civiltà”, titolo “Sequestrata” e sommario “Non voglio finire come Hina. Pakistana sparita da 15 giorni” e foto di Hina accanto al titolo) segregata in casa dai genitori perché infastiditi dalle reazioni dei coetanei non rischia più di fare la drammatica
fine di di Hina. Nessun reato in questa storia, precisa la questura di Brescia, la città in cui nell’agosto del 2006 finì nella maniera peggiore la vita di Hina Saleem, anche lei pachistana e anche lei colpevole di voler vivere all’occidentale. Fu uccisa dal padre e dai parenti per cancellare la vergogna”. (dal Tg2 delle 13 del 16 aprile 2011)
Tg2 delle 13 del 16 aprile 2011
Qui il fatto che il pacchetto è il messaggio emerge con una chiarezza ancora maggiore. Infatti, in questo servizio che non fa riferimento al caso Dafani, ma al caso Saleem, quando si parla di Hina le immagini che scorrono sono quelle di Sanaa Dafani, a dimostrazione che le due storie sono ormai trattate come storie interscambiabili le cui stesse icone si fondono in un’icona sola. Anche qui ritornano le immagini di anonime donne col burqa, che compaiono nel servizio quando si parla della decisione della famiglia di tenere nascosta Jamila. Infine, nel servizio troviamo questa frase che si commenta da sola:
“Jamila è una bellissima ragazza che non passa inosservata e ottimi sono i risultati a scuola. Tutto questo per la famiglia rappresentava una violazione dei principi dell’Islam”. Jamila è stata tenuta a casa da scuola qualche giorno, viene detto, perché i fratelli erano gelosi dei ragazzi che la guardavano perché era bella. Il Preside dell’istituto però, intervistato dal Tg2, due giorni dopo, nega che il motivo fosse quello e accusa i media di fare clamore inutile. Non c’è reato. Pare che anche la storia del marito che la aspettava in Pakistan non si basasse su alcun riscontro. La frase sul giornale che viene ripreso nel servizio (“Non voglio finire come Hina”) non si capisce a che titolo stia in un virgolettato, dato che non risultano dichiarazioni o scritti della ragazza. La vicenda non viene chiarita. Quel che conta è il pacchetto, capace di travolgere ogni evento e di asservirlo a sé. Due giorni dopo (è il 18 Aprile 2011) il Tg3 delle 19 affronta il caso Jamila in un modo curioso. Apre negando che il caso Jamila c’entri qualcosa con il caso “Hina”, ma poi prosegue come se la negazione non ci fosse stata.
“Jamila non è come Hina, la storia è diversa, non c’entra niente con quella violenza brutale che nel 2006 sconvolse la provincia di Brescia. Ma il pensiero va subito lì, a Hina e le altre. Ragazze che vivono in Italia, che dell’Italia hanno preso ormai abitudini, modi di fare, di vivere, ma che si scontrano con gli uomini della famiglia (l’immagine qui è di un gruppo di soli maschi adulti stranieri – tra questi anche cinesi e neri). Padri, mariti, fratelli o cugini che non accettano il modo di vivere del paese in cui si sono trapiantati. Hina Saleem è stata vittima del padre solo perché aveva un ragazzo italiano e non accettava il matrimonio imposto. Proprio come Sanaa, uccisa dal padre, a Pordenone. O come Almas, 17 anni, rapita a Pesaro dai suoi stessi parenti pachistani e picchiata per il suo desiderio di vivere all’Occidentale. Nomi che sono storie. Amal a 26 anni voleva solo andare dal parrucchiere ma il marito l’ha investita. Sovie(?) è stata avvelenata dai famigliari perché non era abbastanza sottomessa; Fatima uccisa dal fidanzato perché si sentiva disonorato dal suo comportamento. Giovani o giovanissime che vorrebbero vivere come le loro amiche. Ma tutto questo non lo accettano i loro uomini. Hanno paura di non avere più potere sulle figlie, mogli, sorelle. Di vedere il loro orgoglio maschile svanire in una magliettina aderente, in un bacio dato a un coetaneo. O anche solo in un viso bellissimo, come quello di Jamila. Troppo bello perché altri possano ammirarlo”.
Per chiudere, e anche per aprire una finestra sul racconto dei femminicidi in contesti di famiglie non immigrate segnaliamo un servizio del tg3 del 29 settembre 2012(1) (ma il template di Hina e Sanaa offre riscontri anche più recenti).
Oltre ai temi già affrontati sopra, che si riscontrano ancora in questo servizio, esso mostra qualcosa di peculiare: una interessante apertura al tema più generale del femminicidio, uscendo (nel finale) dalle griglie etniche e dal confinamento alla questione migratoria o a quella islamica che avevano caratterizzato l’uso del pacchetto fino a quel momento. Ci pare una questione interessante perché coincide con un periodo in cui il tema del femminicidio ha grande visibilità mediatica. In particolare, sul tema delle immagini, la cosa che ci sembra meritevole di approfondimento è il fatto che, mentre per le donne straniere si è formato un pacchetto che si regge su casi e immagini di cronaca, nel momento in cui il servizio allarga la portata al tema delle violenze domestiche in Italia ciò che viene utilizzato è una fiction (pubblicità progresso?), mentre nessun caso di cronaca viene né citato né mostrato.
1Per questioni legate alla concessione dei diritti Rai, siamo in attesa di poter pubblicare il video,ndr