di Andrea Pogliano
La storia di Hina Saleem. All’interno del contesto illustrato nella scheda precedente, la storia più paradigmatica è certamente quella di Hina Saleem, ragazza pachistana uccisa a Sarezzo, in provincia di Brescia, dal padre e altri parenti nell’estate del 2006. Che si tratti di un caso esemplare, che viene letto all’interno del frame e che eleva il frame stesso a riferimento esplicito dei racconti giornalistici dell’immigrazione dal mondo musulmano, lo si vede dai numeri. La quantità di servizi dei telegiornali e di pagine di quotidiani che menzionano il nome “Hina Saleem” è impressionante. Ma l’importanza del quadro culturale che questa storia, per come è stata raccontata e per il contesto nel quale si inseriva, ha finito per esplicitare e consolidare, emerge con evidenza dalla sua capacità di uscire dalla dimensione della notizia, per diventare romanzo giornalistico e tema politico. La storia dell’omicidio di Hina Saleem è infatti diventato un romanzo (“Hina, questa è la mia vita. Storia di una figlia ribelle”, Milano, Piemme 2011) ed è servita da oggetto di discussione in numerosi programmi di approfondimento politico-culturale. Da un punto di vista giornalistico poi, essa è diventata un media template piuttosto ricorrente (ne troviamo ampie tracce su tutti i media informativi in tutto il periodo che va dal 2006 ad oggi).
Con media template si intendono «preesistenti cornici mediali di comprensione culturale che possono essere applicate alle nuove circostanze, in forme più o meno adeguate, in modo da entrare nella costituzione pubblica e mediatica di diverse questioni e diversi eventi, influenzando le disposizioni, le azioni e i risultati» (Cottle 2009: 174-175). Kitzinger (2000), che ha prodotto un ragionamento interessante sui significati dei media template nel giornalismo, li ha definiti «scorciatoie retoriche (…) funzionali a forgiare le narrazioni intorno a particolari problemi sociali, indirizzando la discussione pubblica sul passato, sul presente e sul futuro». Alla base dei template ci sono delle storie giornalistiche affermate, che vengono ripresentate per dare a nuove occorrenze la stessa “sagoma culturale” nella quale era stata fissata la storia precedentemente affermata.La scorciatoia retorica rappresentata dal caso Hina Saleem è efficacemente riassunta nella frase “uccisa perché troppo occidentale” o da quella “uccisa perché si rifiutava di portare il velo”.
Nel libro, scritto dai giornalisti Giammaria Monti e Marco Ventura, la scorciatoia retorica che fonda questo caso come un media template è anche molto visibile.
A pagina 21 ad esempio si legge:
“Il padre, Muhammad, l’ha minacciata più volte. Non gli piace che Hina sia così poco musulmana, così poco pachistana. Hina che veste come una ragazza di Brescia, che ride come loro, che parla come loro, con un accento così bresciano che a occhi chiusi neppure ti accorgi che è pachistana”.
A pagina 31:
“La bambolina è tutta qui, vestita come vestiva sempre, come una ragazza bresciana mediamente vanitosa, a quel modo che al padre non è mai piaciuto: jeans, una cintura di tela bianca con la fibbia metallica, una maglietta fucsia a maniche corte con la scritta bianca Beauty, “Bellezza”, e sotto un disegno blu e viola che raffigura una farfalla e due fiori come nelle composizioni floreali di Gujrat, la regione del Pakistan da dove Hina proviene; poi le scarpe da ginnastica nere e quel dettaglio incongruo, due calzini di spugna di colore diverso, uno rosa e l’altro bianco, che impressiona i carabinieri per la distratta stravaganza che calza così bene alla Hina che conoscono. E le mani giunte sul petto, i due anellini con pietre all’anulare destro, il piercing al naso, le palpebre calate su pupille nerissime…”. (da “Hina, questa è la mia vita. Storia di una figlia ribelle”, Milano, Piemme 2011)
Ora, anche senza richiamare Jacques Rivette e il suo noto articolo su stile e morale, pubblicato nel lontano 1961 sui Cahiers du Cinéma, per discutere del senso morale di questo profluvio di dettagli intorno al corpo di una ragazza trovata cadavere, possiamo però limitarci a considerare questa passione per i dettagli corporali come un perfetto esempio di aderenza al frame del quale scrivevamo poco sopra. D’altronde non c’è servizio o articolo che parli della morte di Hina Saleem che non si riferisca ai dettagli corporali di Hina: dai capelli, descritti con minuzia per enfatizzare l’assenza di velo, ai piercing e la minigonna, citati per rafforzare la tesi della sua fuga da una tradizione che limita l’espressività del corpo femminile, ai jeans, simbolo degli Stati Uniti e della moda giovanile occidentale, giù fino al tatuaggio, “mostra[to] con orgoglio”.
Il corpo di Hina Saleem viene raccontato come corpo di martire, e i frequenti riferimenti al fatto che Hina Saleem non ha gridato (“nessun vicino ha sentito le urla”, viene ripetuto a più riprese dai media) diventa un elemento impugnato come un’arma simbolica per asserire che il suo corpo, per intero, era un urlo e un messaggio di fuga e emancipazione da un mondo culturale a lei ormai alieno. Hina ha comunque lottato fino all’ultimo, hanno scritto altri, e di nuovo si entra simbolicamente nel discorso di questo corpo di martire che ha inscritto in sé la sua natura “ribelle per necessità” e si contrappone radicalmente ai corpi velati (tanto più se con burqa o niqab) di anonime donne in luoghi ignoti proposti dai media per estremizzare le differenze.
Questa narrazione, così giocata sulle immagini evocate a parole, trova nelle immagini video e fotografiche un importante supporto. Le fotografie “rubate” alla pagina Facebook di Hina Saleem finiscono su tutti i giornali e tutti i telegiornali. In particolare, la selezione porta su quelle più “trasgressive”, che mostrano l’uso disinibito del suo corpo. Due video digitali che la vedono protagonista (un video amatoriale girato da un amico e un cortometraggio in cui Hina recita la parte di una ragazza tradita dal fidanzato), vengono continuamente proposti, a partire dal 14 agosto, per frammenti, ai telegiornali e ai programmi di approfondimento e di intrattenimento.
Il codice estetico del racconto. Queste immagini portano in sé un codice estetico che si contrappone drasticamente alle immagini che rappresentano il padre, la madre e gli altri parenti di Hina Saleem. La nuova estetica dei social media si contrappone all’estetica della cronaca, il tutto dentro lo stesso servizio televisivo o lo stesso articolo di quotidiano o di settimanale. L’effetto contrasto è evidente e asseconda la separazione netta che viene tracciata a parole tra il mondo della ragazza uccisa e il mondo dei parenti o della non meglio precisata “comunità”, esemplificata in immagini dai soliti – anonimi e non localizzati – uomini in preghiera.
Se questo è il terreno del racconto, fatto di codici binari che separano rigidamente due mondi, il passaggio cruciale è sicuramente un altro: quello della generalizzazione, che trasforma la storia di Hina in un paradigma e una costante minaccia. Il passaggio “generalizzante” si regge sulla contrapposizione tra prime e seconde generazioni.
Nel libro viene espressa così, a pagina 45:
“Se le prime generazioni soffrono il distacco dai luoghi d’origine, le seconde vivono sulla propria pelle il conflitto tra le culture: vorrebbero crescere come i coetanei avendo le stesse ambizioni, gli stessi gusti, la stessa smania di divertimento, gli stessi sogni e progetti per il futuro. Questi sogni, queste ambizioni, però, si scontrano con il rigore delle tradizioni famigliari. I problemi cominciano a scuola. E’ lì che si crea il corto circuito, è lì che nasce il desiderio di emulazione, è lì che circolano valori-non valori nuovi e diversi, costumi in contrasto tra loro e sensibilità non più compatibili. E’ in casa, poi, che il conflitto esplode. Spesso i bambini, le bambine soprattutto, vengono ritirati da scuola…”. (da “Hina, questa è la mia vita. Storia di una figlia ribelle”, Milano, Piemme 2011)
Questo passaggio pseudo-sociologico privo di ogni ancoraggio di ricerca e sostenuto da stereotipi, sebbene sicuramente non condiviso da tutto il giornalismo italiano è però una buona fotografia di quel che si trova nei quotidiani e nei telegiornali quando la storia della morte di Hina Saleem viene generalizzata, moralizzata e – in ultimo – politicizzata.
Il template di Hina Saleem alla prova. Il 5 settembre 2006 il Tg3 delle 19 presenta un servizio con queste parole dette in studio:
“Una donna indiana di 31 anni si è uccisa gettandosi sotto un treno. Viveva a Modena; la famiglia le aveva imposto un marito 70enne da sposare in India. Lei invece aveva deciso che il suo futuro e quello dei suoi due figli era qui in Italia. Insomma, un’altra drammatica storia che ha per protagoniste donne immigrate: donne che non riescono ad essere ancora libere”. (dal tg3 delle 19 del 5 settembre 2006)
Il servizio inizia così:“Sotto il treno (immagini: binari ferroviari). Kaura era venuta in Italia nel 2002 e si era adattata bene alla vita nell’Emilia, quella ricca, dove i Sikh, la sua gente, viene ben vista. Perché lavorano sodo, nelle stalle, con le mucche per loro sacre. (immagini: un gruppo di indiani Sikh davanti a una stalla e poi di uno di loro che sposta il fieno dentro una stalla). Una comunità che rispetta le regole e mantiene forte la propria identità.
Si era separata, due anni fa, un gesto di ribellione inconcepibile per una donna del Punjab (immagini: una donna che porta il the, in una casa, e lo appoggia su un tavolino intorno al quale sono seduti degli uomini Sikh e una donna). Dal comune di Soliera, in provincia di Modena, un aiuto: casa, lavoro in fabbrica (immagini: casa e citofono). Quando è morto il marito è stata richiamata dai parenti lontani perché si risposasse con il cognato 70enne, lei 31enne, secondo la tradizione. (immagini: mercato, due donne col velo). Appena tornata in Italia aveva deciso che quella sarebbe stata la sua fine: sotto un treno pur di garantire ai figli di 12 e 13 anni di restare in Italia e di crescere qui”.
La generalizzazione delle “donne immigrate” come “donne che non riescono a essere ancora libere” viene articolata nel servizio dalla giornalista Sabah Iman, intervistata da Francesca Barzini.
Iman dice:
“E’ il problema anche dell’integrazione, che queste donne sono riuscite a integrarsi ma sono una piccola realtà degli stranieri che vivono in Italia. Sono riuscite a diventare bene o male italiane, a aprirsi mentalmente, a accettare la realtà italiana e a inserirsi dentro questa società. Tanti invece si sono ghettizzati all’interno dell’Italia e hanno continuato a vivere come se fossero nei paesi stranieri. Dobbiamo far sì che questi immigrati vengano accettati in Italia, dal popolo italiano, ma allo stesso modo che questi stranieri rispettino la società italiana e le leggi italiane”.(dal tg3 delle 19 del 5 settembre 2006)
Le immagini che accompagnano le parole “Tanti invece si sono ghettizzati all’interno dell’Italia e hanno continuato a vivere come se fossero nei paesi stranieri”, sono quelle di un uomo, al mercato, in abiti tradizionali africani che viene ripreso con un’inquadratura stretta sui pantaloni e poi a salire, fino al viso. Notiamo che l’immagine esplicita che viene costruita con questo discorso è quella di una massa di immigrati non integrati per scelta (“si sono ghettizzati”) o per limiti (di apertura mentale) e della visione dell’integrazione come eccezione di singoli individui che superano eroicamente gli ostacoli (perlopiù interni alla propria comunità di appartenenza). “A questo punto tornano le immagini del binario del treno e la giornalista dice:
“Questa è un’altra storia che ci fa capire quante contraddizioni ci possano essere nella strada verso l’integrazione”.(dal tg3 delle 19 del 5 settembre 2006)
Qui il servizio sembrerebbe finito ma all’improvviso compare il volto di Hina Saleem. “Hina, ragazza pachistana che è stata uccisa dal padre perché voleva vivere come una ragazza italiana e rifiutava il matrimonio combinato (immagini: mamma e fratelli Hina che camminano in strada attorniati da giornalisti). Le donne possono essere più duttili, più disponibili degli uomini ad assorbire usi e costumi del paese in cui vanno a vivere (immagini: mamma e fratelli Hina in conferenza stampa). E a questo punto non danno più per scontate le tradizioni imposte nei propri paesi d’origine. Non riusciranno più ad accettare passivamente matrimoni combinati, soprusi, violenze, mutilazioni (immagini: madre Hina che piange in conferenza stampa, poi stacco sulla fotografia di facebook di Hina in canottiera rosa, accompagnata dalle parole finali): Vogliono diventare padrone del proprio destino”.Costruita come martire e eroina, l’icona di Hina trascina con sé la complessità di un frame che comporta una visione polarizzata del mondo dell’immigrazione in integrati e non e in prime e seconde generazioni. Questo frame verrà definendosi meglio nel 2009.