I sommersi

Una strage a lungo negata

di Raffaella Cosentino

Vittime senza nome e senza rappresentazione. Quasi tutti i naufragi avvengono in acque internazionali, oppure a molte miglia dalla costa. Per molto tempo, le vittime hanno trovato il loro posto come numeri nei titoli in prima pagina ma non ci sono state immagini dell’ecatombe.

La stampa aprile 2011
La stampa aprile 2011
La stampa aprile 2011
La stampa aprile 2011

Niente ha potuto renderli in qualche modo tangibili, vicini, permettendogli di occupare un posto nell’immaginario collettivo. Dei morti non si conoscono le facce e neppure le storie. Restano fantasmi all’orizzonte. Questo da un lato è un problema che attiene all’universo di senso della società occidentale contemporanea, in cui prevale un rifiuto della morte sviscerato da sociologi, filosofi e accademici. Jean Baudrillard diceva: “al giorno d’oggi non è normale essere morti”. La citazione è riportata nel saggio “La morte e il senso della vita nella cultura contemporanea” scritto da Antonio Pieretti, ordinario di filosofia teoretica e preside per un quarto di secolo della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Perugia. A differenza del culto della memoria delle epoche precedenti, oggi il processo di rimozione della morte si nota finanche nel successo di eufemismi come “uscire di scena”, “spegnersi” o “mancare”.
“All’uomo del nostro tempo non è più consentito di avere esperienza della morte – scrive Pieretti- Ne ha una conoscenza, per così dire, solo spettacolare, cioè che non lo coinvolge personalmente e quindi priva di reazioni emotive, attraverso i film, la televisione”. E ancora: “Tutta la cultura contemporanea è caratterizzata da un immenso sforzo per dissociare la vita dalla morte, perché concepisce la capacità di funzionare dell’organismo umano e la sua redditività in fatto di produzione come i soli valori a cui informare la vita”.
Nel modello prevalente della società di massa, “la morte in verità costituisce un’anomalia, un’insopportabile incongruenza” perché sfugge al controllo della tecnica. “Il clima culturale in cui questo processo è giunto a maturazione è fortemente influenzato dai mezzi di comunicazione di massa”, scrive ancora l’intellettuale. Ma se questo vale come discorso generale sull’uscita fuori di scena della morte stessa dal palcoscenico mediatico, il problema sulle frontiere è soprattutto di tipo politico. Le vittime della frontiera Schengen sono come i danni collaterali nei bombardamenti “intelligenti” durante i conflitti.

Sono “gli effetti collaterali della guerra ai migranti che l’Europa ha dichiarato unilateralmente, per lo scopo manifesto di contrastare l’immigrazione clandestina, proprio mentre sbarrava i canali di ingresso legale, persino ai richiedenti asilo” scrive il giurista Fulvio Vassallo Paleologo nell’introduzione al libro di Gabriele Del Grande “Mamadou va a morire” (Infinito edizioni, 2008) sulla strage nel Mediterraneo. Un libro che si propone proprio di custodire i nomi e la memoria di “una generazione vittima di una mappa”, ma anche “un grido d’allarme su una tragedia negata, che chiama in causa l’Europa, i governi africani e le società civili delle due sponde del “Mare di Mezzo”. E Il mare di mezzo è anche il titolo di un successivo libro di Del Grande (Infinito edizioni, 2009) che al tempo dei respingimenti verso la Libia, racconta invece le storie dei padri e delle famiglie dei dispersi in mare, che non si danno pace alla ricerca della verità sulla sorte dei loro figli, nei paesi del Nord Africa ante-primavera araba, sotto dittature come quella di Ben Alì in Tunisia. Sono state dunque ben poche le eccezioni che hanno potuto riportare a galla “la verità” sulle frontiere europee.

Soprattutto, è stata una narrazione tardiva e faticosa, proprio nell’epoca dell’informazione globale in cui invece ogni cosa sembra comunicata e comunicabile. La Stampa del 10 aprile 2011 racconta dalla prospettiva delle famiglie dei dispersi tunisini, il dolore diffuso nei paesi del Maghreb, che in questi anni di stragi della frontiera hanno pagato un caro prezzo. Il “mistero dei tunisini scomparsi” è stato tra i pochi ampiamente trattati dai media italiani e internazionali perché, per la prima volta, i familiari dei dispersi sono venuti ripetutamente in Italia dal 2011 in poi, chiedendo alle autorità dei due Paesi che fosse fatta luce sulla sorte dei loro figli e portando con sé le loro fotografie. (Vedi il Corriere.it)

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Strage occultata e dimenticata per anni fu il naufragio di Portopalo di Capo Passero (Sr) del 1996, scoperto cinque anni più tardi dal giornalista Giovanni Maria Bellu sulla base della testimonianza di un pescatore siciliano. Bellu arrivò ad affittare un robot per la ricerca sottomarina per filmare i fondali e avere la prova certa. Nel 2001 tutti videro le immagini del relitto, dentro il quale erano ancora imprigionati i cadaveri, ridotti a scheletri (Vedi) Questo scosse l’opinione pubblica e si mobilitarono, invano, quattro premi Nobel (Renato Dulbecco, Dario Fo, Rita Levi Montalcini e Carlo Rubbia) per chiedere di recuperarlo e dare una sepoltura ai morti. Delle 283 vittime si conosce il nome solo di uno, Anpalagan Ganeshu, 17 anni, tamil, di nazionalità singalese. Quello che resta di lui è la carta d’identità finita nelle reti del pescatore Salvatore Lupo. Giovanni Maria Bellu raccontò la strage di Portopalo in un libro dal titolo ‘I fantasmi di Portopalo’, pubblicato nel 2004, quasi dieci anni dopo il naufragio. E ancora più tempo ci è voluto per ricostruire la vicenda della Kater i Rades, una piccola motovedetta albanese stracarica di migranti, colata a picco il 28 marzo 1997 nel Canale d’Otranto. Nel 2011 è uscito il libro inchiesta “Il Naufragio” (Feltrinelli), di Alessandro Leogrande che fa memoria delle storie, dei nomi e delle vite di superstiti e annegati nell’operazione di respingimento da parte dalla corvetta Sibilla della Marina militare italiana. È il naufragio del venerdì santo, con 57 morti in gran parte donne e bambini. Scrive l’autore: è una pietra di paragone, perché, a differenza dei molti altri avvolti nel silenzio, è possibile raccontarlo”.
Uno dei rari casi in cui l’opinione pubblica ha potuto conoscere gli sforzi, i sogni e il talento di una delle giovani vittime del Mediterraneo riguarda la drammatica fine dell’atleta olimpica somala Samia Yusuf Omar che aveva partecipato ai giochi di Pechino del 2008 a cui la trasmissione di Carlo Lucarelli, la Tredicesima Ora, nel 2014 ha dedicato una puntata intera.

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Samia Yusuf Omar

 

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