di Raffaella Cosentino
“Sono il nuovo Sindaco delle isole di Lampedusa e di Linosa. Eletta a maggio, al 3 di novembre mi sono stati consegnati già 21 cadaveri di persone annegate mentre tentavano di raggiungere Lampedusa e questa per me è una cosa insopportabile. Per Lampedusa è un enorme fardello di dolore. Abbiamo dovuto chiedere aiuto attraverso la Prefettura ai Sindaci della provincia per poter dare una dignitosa sepoltura alle ultime 11 salme, perché il Comune non aveva più loculi disponibili. Ne faremo altri, ma rivolgo a tutti una domanda: quanto deve essere grande il cimitero della mia isola?
Non riesco a comprendere come una simile tragedia possa essere considerata normale, come si possa rimuovere dalla vita quotidiana l’idea, per esempio, che 11 persone, tra cui 8 giovanissime donne e due ragazzini di 11 e 13 anni, possano morire tutti insieme, come sabato scorso, durante un viaggio che avrebbe dovuto essere per loro l’inizio di una nuova vita. Ne sono stati salvati 76 ma erano in 115, il numero dei morti è sempre di gran lunga superiore al numero dei corpi che il mare restituisce.
Sono indignata dall’assuefazione che sembra avere contagiato tutti, sono scandalizzata dal silenzio dell’Europa che ha appena ricevuto il Nobel della Pace e che tace di fronte ad una strage che ha i numeri di una vera e propria guerra. Sono sempre più convinta che la politica europea sull’immigrazione consideri questo tributo di vite umane un modo per calmierare i flussi, se non un deterrente. Ma se per queste persone il viaggio sui barconi è tuttora l’unica possibilità di sperare, io credo che la loro morte in mare debba essere per l’Europa motivo di vergogna e disonore…Tutti devono sapere che è Lampedusa, con i suoi abitanti, con le forze preposte al soccorso e all’accoglienza, che dà dignità di esseri umane a queste persone, che dà dignità al nostro Paese e all’Europa intera. Allora, se questi morti sono soltanto nostri, allora io voglio ricevere i telegrammi di condoglianze dopo ogni annegato che mi viene consegnato. Come se avesse la pelle bianca, come se fosse un figlio nostro annegato durante una vacanza.” (dalla lettera pubblica di Giusi Nicolini, sindaco di Lampedusa, 15 novembre 2012)
La Fortezza Europa. La lettera della sindaca Nicolini riporta un tema spesso taciuto nei racconti mediatici dei naufragi, vale a dire il fatto che si tratta di vittime della repressione della libertà di movimento con le politiche migratorie che hanno chiuso le frontiere europee all’accesso legale di molti richiedenti asilo. Spesso i naufragi vengono raccontati in una cornice pietistica, come se si stesse parlando di “disperati”, di cui si può provare pena ma per le cui scelte non siamo moralmente e politicamente responsabili. È scorretto e discriminatorio non riconoscere i legami profondi che legano le tristi vicende del Mediterraneo alle azioni di chiusura messe in atto dagli Stati dell’Unione europea. Anche se a fatica e solo recentemente, i naufragi sono riusciti a entrare nell’immaginario collettivo. Una scena in cui il mare di Lampedusa è pieno di morti contenuta nel film “Terraferma” di Emanuele Crialese (girato a Linosa), ha anticipato le scene apocalittiche del naufragio reale all’isola dei Conigli.Il racconto dei morti da Lampedusa si muove su due binari che stanno agli antipodi ma che si toccano più volte: la ricerca dell’orrore più spinto, del dettaglio più drammatico, e la comunicazione di sprazzi di umanità.
Nel complesso delle cronache c’è un progressivo avvicinamento di questi 366 morti al pubblico italiano. L’isola è assediata dai giornalisti ed emergono particolari, storie, oggetti, fotografie, restituiti dal relitto in fondo al mare, che consentono una sorta di Spoon River del naufragio. Ci sono una serie di elementi che rendono possibile e ricco di spunti il racconto, come le testimonianze di chi recupera i corpi e il dolore dei superstiti, che non possono lasciare Lampedusa ma che sono accessibili ai giornalisti. Questo è un altro elemento del tutto nuovo. Sono dunque saltati i filtri che la censura e la propaganda sul tema erano riusciti a mettere in passato, ad esempio quando nel 2009 o nel 2011 gli ‘ospiti’ del centro di accoglienza erano sigillati all’interno della struttura e li si poteva vedere solo al momento dello sbarco, limitandosi a registrare i numeri degli arrivi
Tutti i media esaminati parlano di “corpi allineati e senza nome” nella descrizione delle centinaia di sacchi di plastica o di bare con dentro i cadaveri. Oppure di “fantasmi” quando le onde restituiscono gli effetti personali: zainetti, documenti, fotografie. Tuttavia, se le foto mostrano freddi sacchi di plastica, sono gli articoli a riempirli di contenuto con sempre maggiori dettagli. Alla fine il risultato è che quei cadaveri così anonimi non restano. C’è “la bimba con le scarpe di vernice” – riporta Alessandra Ziniti su La Repubblica del 4 ottobre, nella pagina qui sopra - un’altra “che non avrà più di tre mesi” dice il medico “con la voce strozzata”; una bambina di un anno e mezzo “capelli ricci fitti fitti”, tutti nell’hangar della morte, un cimitero improvvisato. “Da un telo spunta la manina di un neonato, tra i cadaveri donne incinta e ragazzi”. Impaginato accanto c’è un bell’articolo di Adriano Sofri, pubblicato in alto in questa scheda.
Sofri aumenta il carico di dignità umana e diminuisce la distanza fra “noi” e “loro”, dal momento che “loro sono il nostro prossimo”.
Anche qui, la fotografia al centro è un fermo immagine di un corpo che galleggia in mare. Partendo dal ricordo dei bambini morti, Sofri spiega una serie di elementi importanti: l’artificiosità della commozione mediatica (non ci si può commuovere tutti i giorni), la ricerca del capro espiatorio, la responsabilità delle politiche, l’indifferenza, le proporzioni spaventose dei conflitti, come quello siriano, causa della partenza di intere popolazioni, di cui una percentuale molto bassa arriva in Europa.
“In mare c’è una Pompei” titola La Stampa del 6 ottobre riportando il racconto di un sub. Duecento corpi sono ancora ammassati nel relitto, anche bambini. La descrizione minuziosa dell’ “apocalisse”, dell’ “inferno” con “il mare pieno di morti”, ha al centro la fotografia di una tessera di un rifugiato con il logo Unhcr, ritrovata in uno zainetto restituito dalle onde. Per la giornalista è un “mistero”: perché mai un rifugiato dovrebbe viaggiare insieme e come i “clandestini”? Non si riesce a capire che la maggioranza dei rifugiati e dei richiedenti asilo è ospitata in Paesi in via di sviluppo e non ha comunque un modo legale di raggiungere l’Europa con un visto. Il titolo però riecheggia di un’apocalisse della storia italiana, quella dell’eruzione di Pompei, nella ricerca, da parte dei media, di progressivi punti di contatto tra l’opinione pubblica e la vicenda di Lampedusa. Il racconto, per essere commovente, deve anche essere ‘vicino’ ai lettori.
La descrizione di quello che c’è sott’acqua, dei particolari macabri, è uno degli elementi centrali della notiziabilità di questo fatto. Questo è uno degli articoli attraverso cui si comunica lo ‘shock’ ai lettori. Il Corriere della Sera del 10 ottobre affianca una delle tante fotografie delle operazioni di recupero dei cadaveri con il racconto, davvero straziante, fatto dall’inviato.
C’è una mamma che stringe il figlioletto di otto o nove anni, lì, sul ponte di prua. Sono andati giù insieme, nel gorgo della barca, in pochi istanti di terrore: lei deve aver pensato di proteggerlo fino all’ultimo. E anche adesso, serrandoselo al petto, tiene le braccia così chiuse che nemmeno il «Gigante», il carabiniere sommozzatore Gabriele Giacomone, coi suoi due metri di statura e le sue mani da fabbro buono, riesce ad aprirle: e allora, ecco, ci vuole delicatezza più che forza, piano, ci vuole amore per vincere tanto amore, adagio, cacciando il pianto indietro, nel boccaglio”. (dal Corriere della Sera del 10 ottobre 2013)
Sono racconti di grande umanità, che hanno l’effetto di ridare dignità di persone normali a quei morti in modo così disumano. Anche i particolari dell’abbigliamento indossato dalle vittime sono importanti per sentirli vicini al mondo occidentale. Brandelli di vita a cui ci si appiglia per ricostruire quali potevano essere i desideri e i programmi di queste persone. Negli abissi c’è
“un ragazzetto che aveva pensato di fare bella figura sbarcando da noi, «italiani brava gente fissata col calcio», gli avevano detto di sicuro, e s’era procurato la maglia della nazionale di Prandelli, che adesso gli fluttua addosso così azzurra dentro tutto quel blu profondo”. (dal Corriere della Sera del 10 ottobre 2013)
Non siamo più nell’ambito della cronaca del fatto ma siamo passati a quella della costruzione dell’immaginario collettivo. E c’è lei, che in poche ore è diventata il simbolo finale della tragedia, la giovane mamma che ha partorito morendo.
“Avrà avuto vent’anni, forse meno. Maglietta nera con una scritta bianca in petto, «Q-Star»
Lunghi capelli bruni. Collant bianchi strappati alle ginocchia sotto i pantaloni. Forse immaginava di fermarsi da noi, forse sognava un futuro da italiano per quel piccolino che cresceva dentro di lei dai giorni della fuga dall’Eritrea e che doveva avere accarezzato durante quel dannato viaggio di 24 ore, da Misurata fin qui”. (dal Corriere della sera del 10 ottobre 2013)
I bambini sono le grandi vittime del Tre Ottobre. Ecco una foto simbolo, con gli orsacchiotti di peluche su quattro bare bianche
“L’album delle foto dei fantasmi”, secondo la definizione data dal Corriere della Sera del 4 ottobre mostra “i sorrisi con fidanzate e parenti”.
E’ un album che ovviamente non esiste, è una costruzione mediatica. Le foto sono riemerse “da qualche portafoglio zuppo d’acqua, da una borsetta risparmiata dal naufragio e raccolta dai soccorritori”. E sono arrivate ai giornalisti che così possono anche fare vedere, non solo descrivere, come erano vestite le persone sulla barca affondata. Una delle fotografie finisce in prima pagina, segnando una scelta completamente diversa rispetto alla prima pagina di Repubblica che ha puntato, invece, sull’immagine shock dei sacchi di cadaveri sul molo. Somigliano a “figurine pre se dalle collezioni dei nostri figli”. Con questo particolare il quotidiano milanese segna la differenza con le stragi senza volto del passato.
“Non abbiamo nomi, nemmeno il nome della barca male detta. Solo facce, ed è già tanto in un dramma collettivo che dura da anni e si racconta normalmente solo per numeri”. (dal Corriere della Sera del 4 ottobre 2013)
Le fotografie ritraggono ragazzini, coppie, famiglie, che non sono poi così distanti dallo stile europeo, figli di un mondo globalizzato. I ‘migranti’ così ridiventano ‘persone’ e vengono messe al centro le loro speranze. I cronisti cercano di indovinare le loro vite da quello che si vede negli scatti. “I più giovani in piedi, accanto, spavaldi, a nascondere la paura di quel viaggio – scrive ancora Il Corriere - Tre sul divano che fanno una smorfia tosta da attori di film d’azione, sfidando il futuro”.
![La Stampa 4 ottobre 2013](../../../../wp-content/uploads/2015/03/Stampa_04.10.2013_01-copy.jpg)
“In quelle foto le vite spezzate”. La Stampa decide di metterle in prima pagina, da sole, senza neanche le scene dei soccorsi, per dare notizia dell’ecatombe il 4 ottobre. In primo piano ci sono le “foto dei fantasmi del mare”, “quel mare che si è preso i sogni di centinaia di giovani eritrei”, “sulle rotte dei disperati”.
Repubblica riprende il tema delle fotografie il giorno seguente, il 5 ottobre, ma essendo già uscite sulle altre testate, sceglie di mettere in basso quelle pubblicate. In alto invece ci sono le foto segnaletiche dei superstiti. Le facce sono state cancellate per renderli irriconoscibili. Nell’attacco il giornalista autore del reportage spiega ai lettori che lo chiede l’Onu, per evitare il riconoscimento dei dissidenti da parte del regime eritreo, ed evitare ritorsioni nei confronti dei sopravvissuti e delle loro famiglie rimaste in patria.“I superstiti parlano di un carico di 500 vite umane – scrive il cronista - L’album fotografico si ferma a quota 153. La sottrazione è la cifra del massacro. La sua evidenza è data dall’assenza”.
Il filone delle “foto” è usato ancora da La Stampa il 5 ottobre. Un lungo reportage è interamente dedicato a “Quegli scatti che arrivano a Lampedusa senza i proprietari”, “portati con sé sui barconi come il tesoro più prezioso”. Non sono foto che si riferiscono all’ultimo naufragio, ma a tanti sbarchi precedenti, raccolte insieme ad altri oggetti recuperati dai barconi dall’artista lampedusano Giacomo Sferlazzo, che ne ha fatto un piccolo museo con la sua associazione Askavusa.
“Ce le portavamo anche noi italiani nel grande esodo verso le Americhe
E quanto somigliavamo a loro”. (da La Stampa 5 ottobre 2013)
Attraverso questi piccoli tesori dell’emigrante si crea quel ponte necessario fra le vittime del mare e l’opinione pubblica italiana, ricordando il passato della grande emigrazione dei primi del Novecento. Sono come noi, sono anche cristiani.
“Ti raccontano un’Africa piena di speranza .
Un’Africa che scardina i luoghi comuni sull’assalto dei ‘turchi’ sulle nostre coste. Un’Africa più cristiana della nostra Europa. Basta leggere le lettere ritrovate sui barconi, infarcite di preghiere, di affidamento a Gesù alla Madonna a San Michele”. (da La Stampa 5 ottobre 2013)
Il tema delle “foto” personali delle vittime dei naufragi ritornerà quasi due mesi dopo sulla copertina de L’Espresso del 14 novembre 2013, dove diventano la prova e l’elemento di un forte j’accuse politico, perché quei volti innocenti vengono messi in relazione con la scelta del governo italiano che ha portato a “lasciarli morire”.
In un’inchiesta esclusiva e molto ben documentata di Fabrizio Gatti, il settimanale ricostruisce i colpevoli ritardi nella decisione di soccorrere una barca con centinaia di siriani e carica di bimbi, colata a picco nelle acque tra Malta e l’Italia, l’11 ottobre 2013, appena una settimana dopo il naufragio di Lampedusa. Si tratta di una pagina importante del giornalismo italiano, una delle tante firmate da Gatti. È un lavoro ricco di testimonianze, con cui si confuta la versione ufficiale fornita dalle autorità italiane.
“La nave Libra della Marina militare era a poche miglia dai profughi. Ma per ore non è stata coinvolta nelle operazioni di salvataggio. La prima chiamata di soccorso è arrivata alla centrale della Guardia costiera. Che ha passato l’intervento a Malta nonostante gli italiani fossero più vicini al punto del naufragio.
“Abbiamo rispettato gli accordi”. (da L’Espresso, 14 ottobre 2013)
Ecco come l’11 ottobre sono morte oltre 260 persone.