di Raffaella Cosentino
Le migrazioni raffigurate come “ondate”. Non si discosta dalla narrazione comune sugli sbarchi e dalla retorica dell’invasione L’ Espresso del 10 marzo 2011, con questa copertina intitolata Assalto all’Europa.
“Un’onda di disperati fugge verso Italia e Grecia. Rapporto su un esodo biblico”. Le prime fotografie che accompagnano il reportage da Evros di Fabrizio Gatti sono coerenti con l’impostazione data dalla testata e rappresentano la pressione migratoria ai confini dell’Europa.
Nelle pagine interne, sopra il titolo a caratteri cubitali “Exodus” lo scatto mostra l’arrivo a Lampedusa di immigrati dalla Tunisia, colti nell’atto di accalcarsi al momento dell’approdo sulla terra ferma. Pronti all’assalto, si potrebbe dire. Chi sono i soggetti raffigurati lo spiega il lead dell’articolo: “Solo il vento li tiene lontani. La massa di disperati in fuga dalla Libia sa che con onde così alte la traversata verso la Sicilia sarebbe un suicidio. Ma l’esodo è già cominciato”. L’esodo è reso visivamente anche dai numeri in evidenza nelle didascalie: “oltre 150 mila le persone già scappate dalla Libia”; “l’Egitto deve accogliere oltre 140 mila cittadini che hanno perso il lavoro. E molti cercheranno di emigrare nell’Ue”.Con l’espressione esodo biblico ci si è riferiti all’arrivo dei primi 5mila profughi tunisini a Lampedusa a metà febbraio del 2011, dopo la caduta del regime di Ben Alì, in seguito alla rivoluzione dei gelsomini. L’esodo è per definizione “la partenza, l’emigrazione volontaria o forzata di un gran numero di persone”. Deriva dal greco éxodos ‘uscita’, composto da ‘ex – fuori’ e hodos – ‘cammino’. L’uso di questa espressione nel contesto delle prime fasi del flusso migratorio proveniente dal Nord Africa appare da subito una vera e propria esagerazione, sia perché il fenomeno era ancora agli inizi e il numero di migranti limitato, sia perché era impossibile avere stime certe sull’andamento della situazione, soprattutto in riferimento alla rivoluzione in Libia. L’ esodo richiama la straordinarietà, un fenomeno epocale. Secondo i ricercatori dell’Osservatorio di Pavia “è il marchio di fabbrica di uno stile narrativo” perché il tono dei servizi da Lampedusa è stato allarmistico nel 76% dei casi.In particolare, l’11 marzo 2011 le televisioni del mondo trasmettono le immagini di un devastante tsunami che colpisce il Giappone. Il primo aprile, l’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi definisce gli sbarchi a Lampedusa seguiti alla primavera araba con un’espressione dal sicuro impatto emotivo: “tsunami umano”
Così i salvataggi vengono associati a una sciagura nell’immaginario collettivo. “Bisogna però sapere che non c’è nessuno “Tsunami umano” – scrive Gad Lerner sul suo blog - In tre mesi abbondanti gli arrivi hanno superato di poco quota ventimila, cifra esigua e sopportabilissima da una nazione come l’Italia se solo si fosse attrezzata per tempo, senza coltivare l’isteria collettiva”. E aggiunge: “Ma la strumentalizzazione di questa vicenda, certamente drammatica per i suoi risvolti umani, ma non certo catastrofica, è solo l’ennesimo caso di disinformazione”.
Nel reportage dell’Espresso dai confini meridionali dell’Europa, la foto di Giovanni Cocco “fra i disperati della rotta est” pubblicata dal settimanale sempre nell’ambito del servizio uscito il 10 marzo 2011, mostra le orme nella sabbia della zona di attraversamento sul fiume Evors al confine greco-turco. L’immagine rende perfettamente ciò che viene descritto nel testo del reportage: “Divine, Rose, Jules e gli altri africani non sanno nemmeno dove sono. Appaiono come fantasmi…”
Un popolo di fantasmi in perenne cammino, che bivacca, si nasconde e del suo passaggio lascia tracce che possono essere spazzate via con un soffio di vento: un’orma nella sabbia, una lettera, una fototessera. Nelle pagine seguenti si racconta il cambiamento che i social network stanno portando nel racconto delle migrazioni. Negli ultimi anni sono diventate quasi comuni le denunce su maltrattamenti e respingimenti che gli stessi profughi riescono a fare pervenire ad attivisti e ong grazie a smartphone, social network e messaggerie. Un riquadro del reportage è dedicato proprio a questo fenomeno che nel 2011 è agli albori, ereditato dall’esperienza delle rivolte della primavera araba. In viaggio su Facebook : “i migranti del 2011 sono gli abitanti del villaggio globale: gli stessi protagonisti delle proteste, dall’Iran ai paesi arabi…” Gatti li racconta come dissidenti con l’Iphone e avvezzi all’uso delle ultime tecnologie. Al contrario, le immagini li raffigurano in perenne attesa, nei bivacchi e in povertà.
Più in generale, il tema dell’immigrazione irregolare e degli sbarchi, così come quello del grave sfruttamento lavorativo, segue una polarizzazione nel racconto dei protagonisti: fantasmi e disperati oppure clandestini. Spesso le immagini associate al tema non mostrano violenza, come in quelle che vediamo di seguito, tratte dal settimanale Internazionale (2010) e dal Corriere della Sera del 2011. Giovani che guardano il nuovo mondo e la nuova vita che si apre davanti a loro, mentre sono ancora stipati dentro la stiva di un’imbarcazione in pessimo stato o mentre camminano per le strade di Lampedusa. È proprio l’associazione con il termine “clandestini” nel titolo a dare una forte cornice interpretativa allo scatto e a connotarlo negativamente.
La Carta di Roma raccomanda ai giornalisti di evitare l’uso di questa parola fortemente negativa. “Venticinque anni fa del clandestino era prevalentemente messo in evidenza il tratto semantico dell’invisibilità. Gli immigrati c’erano ma si vedevano poco – scrive il linguista Federico Falloppa nel saggio Razzisti a Parole – Oggi invece i migranti clandestini sono visibilissimi, tanto da essere evocati con espressioni iperboliche da rovinarci il sonno: con i loro sbarchi, le loro ondate, le loro invasioni”.