di Raffaella Cosentino
“Un cimitero chiamato Mediterraneo” scrive l’Osservatorio Fortress Europe. Secondo le statistiche del blog, dal 1988 alla fine del 2012 sono morte lungo le frontiere dell’Europa almeno 18.673 persone. Di cui 2.352 soltanto nel corso del 2011. Le statistiche dell’Alto Commissariato Onu per i rifugiati registrano il 2014 come l’anno peggiore per le morti nel mare Mediterraneo, quasi 3500, nonostante l’operazione Mare Nostrum abbia salvato circa 170mila persone. Nei primi due mesi del 2015, sempre secondo l’Unhcr, il bilancio tende comunque a salire, in proporzione, rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, con quasi 500 morti nel tentativo di compiere la traversata.
La Stampa del 7 aprile 2011 mette in prima pagina la notizia di una delle tante stragi “al largo di Lampedusa”. I superstiti sono 53 e raccontano che sulla barca erano in 300, tutti gli altri sono annegati. La “verità” sull’immigrazione, di cui parla La Stampa in prima pagina, è una notizia che però ancora non “buca”, come si dice in gergo giornalistico. Nella composizione foto-testi troviamo tutta la narrazione tipica degli sbarchi: i soccorritori e i salvati nell’immagine al centro della pagina; il “miraggio” della terra promessa negli articoli richiamati in prima.
Parole forti e immagini soft. Se il titolo parla di “strage”, la foto è molto consolatoria perché mette l’opinione pubblica sul piano emotivo della “buona coscienza”, in fondo siamo noi che andiamo a salvare quei “disperati” con cui non si percepisce un vero legame. Finisce invece nella pagina interna una foto, probabilmente d’archivio, molto più impietosa con un carabiniere di spalle a rappresentare la frontiera in carne e ossa e il cadavere di un uomo ai suoi piedi, disteso sulla spiaggia. Davanti c’è l’orizzonte del mare che non dice nulla sulla provenienza di quel corpo senza vita. Ci sono le cifre spaventose dell’ecatombe e il titolo dice che il Canale di Sicilia è una “fossa comune”. Il racconto è quindi quello di “una morte collettiva” che non si allontana dall’approccio massificante della narrazione sugli sbarchi. E di un cimitero “degli sconosciuti”, dunque degli stranieri nel senso di “estranei”, di persone lontane dalla percezione del pubblico italiano. I dettagli non sono sulle storie individuali, ma servono solo ad amplificare l’orrore e la distanza tra il lettore e i migranti. Si parla delle reti dei pescatori che dal mare tirano su cadaveri. Si legge di un barcone arrivato dopo 18 giorni di traversata con 15 migranti allo stremo, ma vivi, e 60 mancanti all’appello, con 13 corpi tenuti sulla barca, dicono i superstiti, “sopra di noi, per proteggerci dal freddo”.
Non c’è una vera responsabilità in questi drammi. L’accusato principale è “quel tratto di mare che ingoia il sogno dei migranti disperati”. Un “gorgo scuro”, “come il mostro delle favole” e “che si nutre di corpi”. Una sorta di Scilla e Cariddi insomma. Il sogno è “spezzato” ma il racconto anche, nel momento in cui non individua le cause sociali e politiche di queste morti di massa.
“Ecatombe sulla rotta per l’Italia” titola il Corriere della Sera lo stesso giorno, sempre in prima pagina. Più di 250 morti, molti sono bambini. Si tratta però di un “dolore senza nome”. Appunto, non si conoscono le generalità delle vittime, né altri dettagli su di loro, a parte la presunta nazionalità e l’ipotetico bilancio del naufragio. Mentre erano in corso le operazioni di salvataggio, l’imbarcazione su cui viaggiavano i migranti si è ribaltata. La sorte dei “disperati” sembra ineluttabile. L’editoriale di Claudio Magris influenza l’interpretazione dell’opinione pubblica in questa direzione: “Quello che è successo a Lampedusa dimostra, con la violenza e l’ambiguità di una parabola evangelica, la necessità e l’impossibilità di un’autentica fraternità umana universale, il dovere e il non potere accogliere tutti coloro che chiedono aiuto”. Nella pagina interna, si evidenzia nel testo dell’articolo che i soccorsi sono “solo” italiani.
Il Corriere, a differenza de La Stampa non usa immagini di morte, neanche tra quelle d’archivio, ma solo fotografie dei soccorritori con i giovani salvati. In qualche modo viene ricordato che si tratta di persone in fuga dalla dittatura in Eritrea e che quel Paese ha subìto il dominio coloniale italiano. Questo può far cogliere il perché somali ed eritrei si sentono legati all’Italia e cercano scampo “facendo rotta” verso il nostro Paese.