di Raffaella Cosentino
Quando sui media si parla di Sfruttamento spesso l’intenzione del giornalista è di denunciare le vergognose condizioni cui sono sottoposti i lavoratori sotto il giogo dei caporali. Ma il problema principale quando si descrivono gli ‘schiavi’ è il rischio di incorrere in una raffigurazione troppo incline alla pietà che può disumanizzare le persone, contribuendo a creare distanza fra il lettore e le vittime dello sfruttamento. È l’effetto che si ottiene quando il racconto si appiattisce sull’immagine della massa degli ‘schiavi’ dei campi.
L’iconografia dei disperati, nelle sue diverse declinazioni, allontana la realtà descritta dalla responsabilità collettiva, sociale e politica, centrandola sul “provare pena”. L’africano schiavo di Rosarno è entrato in pochissimo tempo nell’album fotografico dei clichè usati per descrivere tutti gli immigrati in Italia, assieme al raccoglitore di pomodori in Puglia, al “marocchino” o al “vu cumprà”.

Il problema del racconto stereotipato nasce anche per l’assenza di informazione sull’immigrazione “normale” e per il prevalere dell’associazione fra immigrati e degrado, violenza, povertà. Gli africani sono dipinti solo come vittime, schiavi e invisibili.

Rosarno, al pari di Lampedusa, è diventato un luogo simbolico e iconografico, un nome che nei titoli attira sempre l’attenzione. Si va a Rosarno a raccontare che la situazione dei braccianti africani è sempre uguale, negando che si tratta di un soggetto con dignità sociopolitica capace di ottenere importanti conquiste per la società italiana nel suo complesso.