di Andrea Pogliano
La “circolarità di pratiche e discorsi”. Il 4 marzo, al Tg1 delle 20, viene detto che la vittima della Caffarella “aveva anche riconosciuto dalle foto un altro sospetto, subito escluso perché quel giorno si trovava in Romania”. Si parla abbondantemente di “un monco”, un uomo a cui mancano delle dita, che sarebbe stato descritto sin dalle prime ore. Non paghi dei danno procurati da un approccio poliziesco, alcuni giornali ripartono per un altro giro di giostra. Su il Messaggero dell’8 marzo, il virgolettato senza attribuzioni di paternità dice “Un arabo e uno zingaro” e si scrive che il fidanzato della ragazza violentata avesse indicato la “possibile presenza di un magrebino” (a Porta a Porta, il 24 marzo, in un servizio che ricostruisce la vicenda si arriva a dire “persone di etnia magrebina”!).
Sempre su Il Messaggero, il 14 marzo del 2009, sotto il titolo “Nuovi accertamenti nel bosco maledetto”, si trova un riquadro titolato “Extracomunitari nel mirino”, sotto il quale vi è scritto: “Si cerca di capire tra gli spacciatori se qualcuno abbia elementi utili”.
La sovrapposizione tra spacciatori ed extracomunitari è degna di nota e in qualche modo corona il campionario di etichette dei devianti possibili portato avanti dai media. Si è passati dai Rom e dai clandestini, ai romeni, e ora agli arabi e ai generici zingari. Questo campionario confuso e continuamente smentito, ma pur sempre composto e ricomposto, è la forza del frame immigrazione/sicurezza alla cui ombra trova piena legittimazione l’attuazione di politiche securitarie che coinvolgono direttamente diverse categorie di soggetti, alcune delle quali ben lontane dall’essere rappresentate nei fatti di cronaca che hanno avviato il panico morale. Si è trattato di un perfetto esempio di quella “circolarità di pratiche e discorsi” che Marcello Maneri aveva messo in luce.Lo possiamo qui riassumere come un processo di emersione pubblica di alcuni fatti definiti come “problemi sociali” nel quale gli imprenditori morali dettano l’agenda ai media, che a loro volta restituiscono alla politica il quadro di una crescente e allarmata domanda sociale di sicurezza, facendo come se quella domanda non fosse un effetto di quelle stesse rappresentazioni.
La de-responsabilizzazione dei responsabili è un fatto al quale ci siamo largamente abituati, ma che diventa necessario – alla luce dell’analisi – registrare come uno dei grandi problemi della comunicazione politica mediatizzata nel nostro paese. Nessuna testata che abbiamo analizzato ha chiesto scusa. L’imbarazzante questione delle immagini è stata trattata come un problema tutto esogeno al giornalismo.
Si è più volte detto e scritto che chi ha condotto le indagini ha sbagliato a dare troppa importanza al metodo del riconoscimento visivo come indizio di colpevolezza. Nessun servizio auto-critico è stato però prodotto sull’inutilità e sul danno che è derivato dall’inseguire morbosamente i dettagli visivi, le supposizioni su etnie o nazionalità, per non parlare dell’uso spregiudicato e prolungato delle immagini dei presunti colpevoli.
Il 5 ottobre 2009, quasi otto mesi dopo i fatti, è arrivata la condanna in primo grado per due uomini riconosciuti colpevoli delle violenze al parco della Caffarella. Il Tg3 di quel giorno ha ripercorso il caso, usando queste parole: “… Nonostante il riconoscimento fotografico da parte delle vittime, non sono loro i mostri della Caffarella. Un mistero sciolto solo oggi. Le foto dei due condannati, anch’essi romeni, mostrano infatti una somiglianza impressionante con i due accusati della prima ora”.
tg3 del 5 ottobre 2009
Vengono mostrate, a mo’ di prova, le due fotografie, adagiate su un tavolo in questura, sopra una pettorina blu della polizia: i due uomini condannati assomigliano relativamente poco a Racz e a Loyos (immagini non visibili nel video pubblicato qui sopra, per questioni legate ai diritti Rai, ndr).
Questo tentativo bizzarro di riabilitare tutti, inquirenti, inquisitori politici e giornalisti, come se si trattasse di un caso gestito male per colpa di una “somiglianza impressionante” di due coppie di romeni è davvero esemplare dell’incapacità di assumersi delle responsabilità. Ma è anche interessante per ragionare sulla fotografia giornalistica dei corpi e sull’evocazione a parole di immagini di corpi gestiti come se fossero strumenti inquisitori e probatori.
L’auto-assoluzione dei media. Mi pare evidente che in tal caso le immagini finiscano per risultare potenti strumenti narrativi per la vendita di giornali e anche pericolosi strumenti di discriminazione.
D’altra parte c’è da domandarsi – al di qua di qualunque richiamo a codici etici presenti o assenti – a chi serva l’identificazione e a chi serva la prova visiva. Nell’ottica del buon funzionamento di una società, mi viene da dire, ad alcuni professionisti coinvolti nel caso, di certo non al pubblico generico di giornali e telegiornali. Ma anche a voler assumere una posizione non idealista e non normativa e volendo concedere l’uso spregiudicato delle immagini – evocate o mostrate – come una componente essenziale e irrinunciabile del giornalismo quotidiano, bisogna però insistere almeno sulla necessità di fare autocritica e di chiedere pubblicamente scusa nel momento in cui quella produzione di immagini risulta lesiva di alcune persone in modo diretto e di alcuni gruppi nazionali in modo più indiretto ma non meno importante.
L’auto-assoluzione è un’ulteriore perdita di credibilità. Lasciare che l’unico modo per riabilitarsi sia condurre un ambiguo rituale di riabilitazione pubblica di un uomo nello studio di Porta a Porta (non scuse, ma il tentativo di descrivere l’ex-mostro come un buono, uno che ha persino lavorato in un monastero e pensato di farsi prete) è qualcosa che, a mio modo di vedere, squalifica tutta la professione.