Roma, dicembre 2009 – Casilino 900.
©AlessandroImbriaco/contrasto

“SOCIALMENTE PERICOLOSI”

Uno stereotipo radicato nei secoli che si declina in vari modi

di Raffaella Cosentino

Dallo stereotipo allo sterminio. Si tende a vederli come naturalmente scaltri, dediti al furto e a crimini abietti come lo stupro o il rapimento dei bambini. Qui vediamo come questo tipo di raffigurazione è sopravvissuta fino a giorni, con il meccanismo che porta a chiedere di prendere “misure speciali” nei loro confronti di questa minoranza da parte della società maggioritaria. Grazie all’amplificazione mediatica di casi di cronaca in cui alcuni Rom sono stati autori di reati si invocano espulsioni, identificazioni, si chiede di rinchiuderli in campi.
Storicamente anche il “Porrajmos” cioè l’Olocausto Rom aveva alla base questa idea della pericolosità sociale delle comunità Rom. A partire dal 1933, iniziarono a essere eliminati i diritti civili dei rom e dei sinti, visti come “criminali abituali e devianti sociali”. I Rom e i Sinti erano visti dai nazisti come stranieri in Europa perchè di origine asiatica e come “parassiti” o subumani”. Vi fu un’escalation di atti amministrativi in tal senso fino allo sterminio nei campi di concentramento.

La fobia anti rom e sinti diventò transnazionale quando l’Interpol istituì il “Centro Internazionale di Lotta contro la minaccia zingara”, ex “Ufficio degli affari zingari”. Furono citati come “vagabondi” in una circolare del 14 dicembre 1937 e quindi annoverati tra gli “asociali”. La pedagogista Mirella Karpati, in un vecchio numero della rivista Lacio Drom (1984) riportava alcune testimonianze dai campi di concentramento italiani per Rom e Sinti. Come questa:

“Durante la guerra eravamo in un campo di concentramento a Perdazdefogu. C’era una fame terribile. Un giorno non so come, una gallina si è infilata nel campo. Mi sono gettata sopra, come una volpe, l’ho ammazzata e mangiata cruda dalla fame che avevo. Mi hanno picchiata e mi sono presa sei mesi di prigione per furto. Quando è finita la guerra sono tornata a Trieste per cercare i miei. Mio fratello e mia cognata li avevano ammazzati. Mi hanno raccontato che li avevano appesi ai ganci di una teleferica e gli sparavano come a un bersaglio. Poi li hanno gettati in una foiba”.
Mitzi Herzemberg

Torna su