ROMA – Cronaca nera presente in modo ampio e costante nella Tv italiana, vittime esposte in modo massiccio e uso strumentale del dolore. E’ questa la radiografia della “Televisione del dolore”, contenuta in una ricerca curata dall’Osservatorio di Pavia Media Research e dal Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti e presentata oggi a Roma. Obiettivo della ricerca quello di indagare la rappresentazione di casi di cronaca nera e giudiziaria nell’emittenza televisiva nazionale. Monitoraggio che ha riguardato tutti i programmi a contenuto informativo (esclusi i notiziari e le loro rubriche) ed è stato realizzato in tre mesi (15 settembre – 15 dicembre 2014) sulle sette principali emittenti nazionali: Rai 1, Rai 2, Rai 3, Rete 4, Canale 5, Italia 1 e La7.
Tre ore al giorno di cronaca nera. Il primo dato che evidenziano i ricercatori dell’Osservatorio di Pavia è la presenza “ampia e costante” di fatti di cronaca nelle diverse reti: nel periodo considerato si è arrivati ad un totale complessivo di 287 ore (3 ore al giorno in media). Tra le reti che presentano un’offerta più consistente sono Rai1 (37,1 per cento) e Canale 5 (32,5 per cento) che insieme arrivano al 70 per cento delle ore complessive. Segue Rai3 col 14,4 per cento, Rete4 con il 10,7 per cento, Rai2 al 4,3 per cento e Italia uno all’1 per cento.
Omicidi e scomparse i casi più seguiti. I casi su cui si concentra l’attenzione delle diverse emittenti sono soprattutto gli omicidi e le scomparse. “Alle due tipologie viene dedicato il 79 per cento del tempo totale – spiega la ricerca -. Le due categorie si prestano, per loro natura, alla serializzazione, attraverso la narrazione degli sviluppi delle indagini, delle diverse fasi dei procedimenti giudiziari in corso e ai relativi dibattiti”. Le emittenti che riservano un’attenzione più cospicua ai fatti di cronaca nera sono Rai1, con Storie vere e La vita in diretta, e Canale 5, con Mattino Cinque e Pomeriggio Cinque. Del tutto assente La7 su questi temi.
“Gli omicidi sono il focus privilegiato di quasi tutte le trasmissioni analizzate – spiega la ricerca -, con oltre il 43 per cento del tempo totale. Le scomparse sono altresì rilevanti nell’economia editoriale dei programmi, spesso si trasformano, con il passare del tempo, in omicidio. Seguono più staccati i casi relativi a violenze e abusi”. I suicidi sono in fondo alla classifica con lo 0,4 per cento del tempo totale.
Pochi casi, ma seguiti in maniera “seriale”. Altro dato interessante che emerge dalla ricerca è quello del numero di casi su cui si concentra l’attenzione televisiva. “Sono relativamente pochi – spiega la ricerca - e tendono a essere riproposti in una logica di serialità, in maniera continua nel corso del tempo, anche in assenza di sviluppi reali nella vicenda”. I casi di più ampia risonanza, spiega la ricerca, vedono come vittime donne o minori. “Tre sono i casi che hanno calamitato l’attenzione mediatica nel periodo considerato – aggiunge la ricerca -: la scomparsa e il successivo ritrovamento del cadavere di Elena Ceste, l’omicidio di Loris Stival e quello meno recente di Yara Gambirasio”.
Vittime e familiari in Tv testimoni del proprio dolore. Coinvolti nel racconto dei diversi casi, gli ospiti dei programmi televisivi presi in considerazione provengono dal mondo che ruota attorno alle vittime, ai famigliari, ai conoscenti o semplici concittadini: sono quasi il 56 per cento. Seguono i giornalisti (13 per cento) e gli esperti (12,6 per cento). Molto presenti anche i legali e periti di parte (8,6 per cento). “L’indagine rivela un’esposizione mediatica massiccia di vittime, familiari e conoscenti in qualità di testimoni del proprio dolore – spiega la ricerca -, un’enfasi e partecipazione emotiva elevata di conduttori, inviati e ospiti, una commistione di ruoli fra ospiti tecnici, esperti televisivi e al contempo consulenti di parte, una ridondanza di informazioni e opinioni sui casi di cronaca più noti, una varietà di format televisivi che include al proprio interno racconti di dolore”.
Le criticità emerse. La ricerca pone l’accento soprattutto su quelli che vengono definiti “esempi di cattive pratiche”. Al primo posto la “raffigurazione strumentale del dolore, che se inessenziale ai fini informativi, diventa un mero strumento di accrescimento del pathos” e la sua spettacolarizzazione. Segnalati anche racconti spinti all’eccesso che “sfidano i principi di pertinenza e continenza formale spostando la missione dall’informazione all’intrattenimento”. La ricerca punta il dito anche contro una narrazione empatica, “che attiva la sfera emotiva degli spettatori a scapito di quella razionale sfidando ancora una volta la continenza formale”.
Cattiva pratica anche quella del processo virtuale, che “offre protagonismo mediatico a parti direttamente coinvolte in procedimenti giudiziari”. C’è poi l’”accanimento mediatico”, che “enfatizza la vocazione inquisitoria di programmi televisivi, favorisce l’irruenza di inviati, produce un rischio tangibile di invadere la riservatezza altrui e danneggiare la reputazione, fornisce dettagli macabri nell’incuranza della sensibilità degli spettatori”. Infine, sotto accusa anche l’infotainment, “che fagocita il messaggio televisivo generando discrasie fra le missioni stesse delle trasmissioni”.